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La luce del vero. Conversazione con Sandro Chessa su “Assandira” di Salvatore Mereu

Sandro Chessa (Nuoro, 9 giugno 1984) è un direttore della fotografia italiano. Laureato in Scienze delle comunicazioni di massa all’Università di Perugia e diplomato all’Accademia di Cinema e Televisione di Cinecittà, ha completato la sua formazione come direttore della fotografia al Centro Sperimentale di Cinematografia sotto la guida del maestro Giuseppe Rotunno. Dopo una gavetta come assistente di macchina e direttore della fotografia di alcuni documentari e cortometraggi (fra cui Inverno, premiato col David), ha curato la fotografia di film indipendenti romani come Sex Cowboys di Adriano Giotti e Go Home – A casa loro di Luna Gualano. È stato recentemente presentato a Venezia il lungometraggio Assandira di Salvatore Mereu, ambientato nella Sardegna rurale della fine degli anni ’90, una storia familiare che ruota intorno alla fondazione e al rogo dell’agriturismo che dà il nome al film. Nel cast anche Gavino Ledda, autore del romanzo Padre padrone, nel ruolo del protagonista Costantino Saru.

Prima di Assandira hai girato con Salvatore Mereu il cortometraggio Futuro prossimo, coprodotto dall'università di Cagliari. Come vi siete conosciuti? Come si è svolta la collaborazione sul set di quel corto?

Un ragazzo del Centro Sperimentale mi aveva scritto chiedendo se poteva dare il mio numero a Mereu, e già mi brillavano gli occhi, poi un giorno Salvatore mi ha chiamato mentre stavo girando un film in Campania, dicendomi che lui e sua moglie Elisabetta erano a Roma per il Mercato dell’Audiovisivo, proprio per presentare, se non ricordo male, il progetto di Assandira. Ci siamo conosciuti in quell’occasione e già in quel primo incontro abbiamo parlato della possibilità di girare un corto con il corso del CELCAM - Centro per l'Educazione ai Linguaggi del Cinema, degli Audiovisivi e della Multimedialità dell’Università di Cagliari. Mereu aveva due soggetti in mente ed era indeciso su quale realizzare, uno era una sorta di Kammerspiel, tutto dentro una stanza, e l’altro era la storia che sarebbe diventata Futuro prossimo. Già allora era più propenso per questa seconda strada, ma c’era la difficoltà di girare una scena notturna in spiaggia. Elencandomi i pochi mezzi a disposizione dell’università – una macchina da presa RED, quattro proiettori e l’aiuto degli studenti – mi ha chiesto se secondo me fosse una cosa fattibile. Gli ho risposto che facendo inquadrature ponderate e illuminando solo quello che ci serviva saremmo riusciti. In quell’occasione Mereu mi ha detto anche che voleva provare a girare tutto il corto con l’ottica da 40mm, e mi chiese di portarla da Roma.

Dopo questo primo incontro come si sono svolte le riprese di Futuro prossimo?

Futuro prossimo lo abbiamo realizzato molto rapidamente, senza altri incontri preparatori dopo quella chiacchierata al MIA: ci siamo ritrovati a Cagliari appena un giorno prima dell’inizio delle riprese, e abbiamo girato il cortometraggio in ordine cronologico, iniziando dalle scene di giorno. Già dalle prime ore sul set ho capito bene lo stile di Mereu: ogni scena era una singola inquadratura in movimento, e questo mi preoccupava un po’ per le scene di notte, in cui i personaggi delle due donne, senza un tetto, si rifugiano negli stabilimenti balneari della costa sarda. Immaginando le ulteriori complicazioni per girare in unico piano sequenza in movimento una scena di notte sulla spiaggia, ho proposto a Salvatore di girarla al crepuscolo perché almeno i personaggi si sarebbero stagliati contro il cielo e ci sarebbe stato un minimo di microlettura sui volti. Dopo aver girato queste scene al crepuscolo, rivedendole ci siamo accorti che davvero era necessario farle di notte, perché la passeggiata di queste due donne – una bambina piccola e una donna adulta che non è sua madre – al crepuscolo sembrava quasi romantica, e doveva essere invece profondamente drammatica. Una sera, andando a mangiare, sulla spiaggia abbiamo visto un venditore ambulante con delle torce, e ci siamo detti che le due protagoniste potevano verosimilmente avere delle torce: sarebbero state luci diegetiche da mettere in mano alle due attrici. Ho usato un’altra torcia per evidenziare i riflessi sui visi e l’abbiamo girata così, in questo modo garibaldino. Per la mia formazione accademica una fotografia tanto arrangiata era una cosa da non dormirci di notte: intorno ai personaggi era tutto nero, la torcia che tenevo in mano permetteva di mostrare dei dettagli ma senza dare una visione globale. Futuro prossimo mi ha insegnato a fidarmi e ad affidarmi alla visione di Mereu, al cercare di andare incontro il più possibile a quello che ha in testa, anche a costo di chiudere una scena con me con la torcia in testa retta da una palla cinese e Mereu stesso che faceva da operatore. Finché non siamo andati a fare la color correction avevo ancora forti dubbi sul risultato, ma alla fine l’esperienza di Futuro prossimo è stata illuminante: con Mereu ho trovato il coraggio di dire che anche così mi piaceva e funzionava per il racconto che volevamo, che potevamo fregarcene delle regole. Questa è stata la mia prima esperienza con Salvatore, un regista che amavo sin da quando ho iniziato ad avvicinarmi al cinema: quando mi ha chiamato non mi sembrava vero e da parte mia c’era una grande voglia di scoprire quale fosse la sua visione. Se c’era da rischiare, ero contento di farlo. Futuro prossimo è stato sicuramente propedeutico alla lavorazione di Assandira. In questo film, anche se avevamo un budget più ampio, un furgone di mezzi tecnici e una squadra di operatori ed elettricisti, ci è capitato in alcune scene di avere lo stesso approccio dell’esterno notte di quel corto.

Qual è stato il processo produttivo che vi ha portato a girare Assandira? In che fase sei stato coinvolto nel film?

Salvatore mi parlò di Assandira subito dopo Futuro prossimo perché questo film ce l’aveva in mente da cinque anni. Ogni volta che tornavo in Sardegna ci facevamo un giro per andare a vedere delle location. Lui ha girato tutta la Sardegna, conosce molto bene tutti i luoghi, e quindi mi ha coinvolto da subito nei sopralluoghi. Prima dell’inizio delle riprese – si parla del 2017-2018 – abbiamo fatto dei provini e ci siamo portati a Foresta Burgos due diverse macchine da presa con due tipi di lenti. Io avevo l’idea di girare con la Alexa, lui mi ha suggerito di provare anche la RED per fare un confronto – anche se dicevo che a mio avviso l’Alexa era migliore, lui voleva vedere quale fosse il guadagno. Abbiamo fatto dei provini in location con due camere e due set di lenti, gli attori e il costumista che già ci mostrava dei possibili costumi da approvare. Fatti questi provini siamo andati da Ercole Cosmi, il colorist che ha fatto tutta post del film, e sulla base del risultato abbiamo impostato un’idea di massima del look che volevamo ottenere.

Un’altra importante discussione che si doveva fare già prima dell’inizio delle riprese era l’approccio agli effetti speciali, perché Assandira originariamente prevedeva molti più VFX di quelli poi usati. Serviva comunque l’inquadratura di una collina bruciata, che evidentemente non si poteva fare dal vero. Un utilizzo eccessivo dei VFX avrebbe cozzato col metodo di Mereu, perché il suo approccio al cinema e a quel film in particolare era quello di una camera libera che seguiva gli attori. Alcuni VFX avrebbero richiesto una certa staticità dell’inquadratura per non dover mettere blue screen dappertutto, cosa che sarebbe stata molto complessa nelle location dove avremmo girato.

Erano queste le preoccupazioni principali che avevamo prima dell’inizio delle riprese, discussioni normali che si fanno in ogni produzione. Dal canto mio dovevo scegliere bene la mia troupe. Un set come quello di Assandira ha bisogno di intimità, devi usare solo il necessario, non rubare, con delle preparazioni troppo lunghe, tempo prezioso al lavoro che Mereu fa con gli attori, che rappresenta la base del film. Anche se Salvatore è un perfezionista e sta attento a tutto. Nel suo cinema, fatto spesso da attori non professionisti, c’è un tale lavoro con gli interpreti e sul realismo che il direttore della fotografia deve avvicinarsi in punta di piedi, e questo va messo in conto dall’inizio perché si tratta di un equilibrio delicato, che si può rompere facilmente.

Hai letto il romanzo di Giulio Angioni a cui si ispira il film?

Il film di Salvatore partiva da una base forte, il libro di Angioni, che prima di essere scrittore era un antropologo che conosceva bene la situazione della Sardegna. Angioni ha scritto Assandira più di dieci anni fa, ma il romanzo resta di un’attualità sconcertante. Non appena Salvatore mi ha detto che c’era la possibilità che ne traesse un film l’ho letto subito; ho letto prima il libro e poi la sceneggiatura. Riguardo al romanzo di Angioni ci sarebbe tanto da dire; ho trovato veramente profondo il senso che lui dà a questa storia, la messa in vendita della propria dignità, il tema dell’apparire trattato attraverso l’uso delle polaroid, quasi un’anticipazione dei selfie, mostrare una vita che non è reale ma che diventa reale per chi la viene a vedere, l’ossessione per la propria immagine… Questi elementi sono rimasti nella trasposizione in film, tanto più che il cinema è lo strumento che per antonomasia riesce a manipolare la realtà, a contraffare la verità. Al di sopra di tutte queste considerazioni, però, c’è innanzitutto il dramma famigliare, perché il libro di Angioni e ancor di più il film parlano di persone concrete, di un padre-pastore e di un figlio che torna e lo mette in mezzo al turismo. Una frase chiave del personaggio di Costantino, sia nel libro che nel film, è che all’agriturismo Assandira è tutto come un gioco, è tutto come un sogno; questa frase mi ha colpito molto perché si legava involontariamente alla mia visione onirica del cinema, alla mia idea che il cinema è e deve essere sogno. La sceneggiatura ha introdotto elementi nuovi rispetto al libro, soprattutto elementi visivi, come il cavallo. Assandira è un libro di grande complessità, che il film secondo me restituisce bene, nell’affrontare il tema della profanazione del sacro, della profanazione della tradizione.

Quali suggestioni visive hai condiviso con Mereu prima dell'inizio delle riprese?

Conoscevo bene tutti i suoi film precedenti, poi la reference visiva che mi dava Salvatore era principalmente De Seta, il lavoro di De Seta. Altri riferimenti sono stati C’era una volta in Anatolia di Nuri Bilge Ceylan e il cinema di Malick, almeno il primo Malick de I giorni del cielo. Per quanto mi riguarda ho sempre in mente dei film, che spero siano in qualche respiro di Assandira, come Apocalypse Now e Il petroliere, ma anche Tarkovskij. Reference che si sedimentano nella tua memoria visiva, anche il cinema di Alice Rohrwacher, di Piero Marcello, di Saverio Costanzo. Quando approccio un lavoro parto prima di tutto da riferimenti pittorici e in Assandira ce ne sono tanti. Mereu ha condiviso con me la suggestione di un “film impressionista”: si parte da Renoir per quanto riguarda la campagna, poi si oscilla fra il realismo e l’espressionismo francese, il fuoco per me rimandava a Hieronymus Bosch ma c’era anche il Periodo blu di Picasso, e in una scena in cui si vede Costantino da solo tagliato a metà dalla luce tenevo a mente la pittura di Caravaggio. Inizialmente c’era l’idea, dettata anche dal fatto che la protagonista fa la fotografa e scatta continuamente foto con la sua Polaroid, di ottenere una sorta di effetto retrò-Polaroid, poi abbiamo lasciato perdere perché ci siamo detti che Assandira era un film classico, che non poteva sopportare un lavoro visivo così mirato e forte. Queste, grosso modo, erano le suggestioni visive che ci siamo dati, poi ovviamente  si parte da una pagina scritta immaginando delle soluzioni, ma davanti alle location reali e agli interpreti tutto si trasforma in qualcos’altro. Sul set quello che hai pensato a partire da un libro o da uno script diventa qualcosa che assume identità propria, immagine. Ad esempio mi colpiva molto l’idea del rudere invaso dalla natura, l’uomo lotta per riappropriarsene ma la natura se lo riprende: la possibilità di girare un film tanto universale nella mia terra era una cosa che mi ha stimolato tantissimo. Mi sono emozionato molte volte a vedere le scene sul monitor, a vedere questo libro che prendeva vita davanti ai miei occhi.

Accennavi alla riflessione tra la Alexa e la Red. Quale macchina da presa avete scelto alla fine e perché? Quale era invece il set di ottiche?

Abbiamo confermato la scelta della Alexa. Inizialmente Mereu era titubante perché era il suo primo lungometraggio in digitale e voleva vedere quale fosse il guadagno. Ha visto che la Alexa ci dava, combinata con le lenti Cooke S4 e alcuni accorgimenti in post-produzione, un’immagine con una pasta che si avvicinava alla pellicola. Come accennavo, abbiamo scelto di girare tutto con il 40mm perché era una cosa che Salvatore già aveva in mente, avevamo girato Futuro prossimo così. Secondo Salvatore cambiando lente cambiava la pasta dell’immagine, e siccome Assandira era incentrato su Costantino e sulla sua visione dei fatti bisognava adottare il suo punto di vista e di conseguenza una sola lente. È stata una scelta rigorosa, a volte anche complessa da mantenere, ma l’abbiamo rispettata in ogni singola scena di Assandira

Dove si trovava la location dell’agriturismo Assandira? Dove si trovavano le altre location?

L’agriturismo in realtà era diviso in tre location nel comune di Burgos, in provincia di Sassari: dal momento che non c’era una singola struttura che appagasse tutte le necessità sceniche del film – avere due piani, avere un patio, avere una stanza come quella dove fanno l’inaugurazione –, queste tre diverse location sono state unite al montaggio. La location che prende fuoco è la stessa della stalla dove si vede Costantino all’alba, lo stesso ovile della scena in cui i turisti entrano e Mario, mungendo le pecore, dice: «siamo figli di latte». La location della piscina era a parte, nel country club Mandra Edera di Abbasanta, in provincia di Oristano. Abbiamo girato altre scene anche a Dolianova, nei dintorni di Cagliari, a Marrubiu, a Ghilarza, e anche a Guasila ma in quel caso la scena non è stata montata, e, in più, una settimana a Berlino.

Quanto sono durate le riprese e come erano organizzate?

Avevamo iniziato da circa una decina di giorni e ci siamo dovuti fermare per un problema produttivo di una certa entità. Poi c’è stata una prima, principale, tranche di riprese che è andata da metà settembre 2018 fino al 26 novembre; a febbraio 2019 abbiamo girato la settimana a Berlino e a giugno abbiamo girato per una settimana a Mandra Edera le scene nella location della piscina; poi c’è stata un’altra tranche da luglio in poi. Complessivamente, tenendo conto anche della “falsa partenza”, sono state, se non ricordo male, 18 settimane. Abbiamo girato in ordine cronologico, prima le scene dei flashback sulla fondazione, il successo di Assandira e la vita dei Saru con i turisti, poi l’azienda che prende fuoco e poi l’alba, con Costantino che si sveglia e tutte le scene che compongono l’interrogatorio. Per Salvatore era una conditio sine qua non girare in ordine cronologico, come aveva fatto nei film precedenti, in modo che i personaggi crescessero e diventassero cose altre dai loro interpreti, e che restassero sempre in divenire. La location principale dell’agriturismo l’abbiamo prima vissuta e ripresa nella sua bellezza, poi l’abbiamo “bruciata” e gli abbiamo fatto piovere sopra, per le scene del post-incendio.

Assandira si apre con una sequenza molto complessa, in cui la polizia arriva all'agriturismo, ormai completamente bruciato, mentre Costantino stringe fra le braccia il figlio morto in una Pietà al maschile. Come avete girato quella sequenza? Come avete ottenuto quella pioggia torrenziale?

L’effetto della pioggia è stato realizzato da una famiglia di maestri di effetti speciali. Si chiamano Galiano e sul set c’era uno di loro, Paolo, assieme ai suoi assistenti. Per fare la pioggia generalmente lavorano con molti litri d’acqua provenienti da un’autobotte ‒ noi avevamo anche una piscina da cui pescare l’acqua – dalla quale partivano delle canne nascoste nel percorso della macchina da presa, e da quelle canne fanno schizzare l’acqua. Nel caso di Assandira la difficoltà era sempre quella dei piani sequenza, perché questo effetto evidentemente è molto più facile da fare su un’inquadratura fissa. I Galiano però si sono inventati il technorain, una sorta di braccio meccanico con sopra delle girandole che funzionano come grossi innaffiatoi rotanti con un raggio di 16 metri di azione, e in tutto il lungo piano sequenza iniziale questo crane seguiva i personaggi e la macchina facendo cadere ininterrottamente l’acqua. Paolo Galiano sul set ha detto che conosceva Salvatore dai tempi di Sonetaula e che già sapeva che era un regista che chiede il massimo, ma questa era una sfida ulteriore. Peraltro la pioggia, per essere vista, andava illuminata in controluce. Volevamo fare come in C’era una volta in Anatolia, dove c’è una scena illuminata solo dai fari delle macchine e dalle sirene delle ambulanze e dei carabinieri, ma nel nostro caso ci avrebbe fatto perdere di vista la pioggia in molti punti del set; abbiamo quindi deciso, insieme alla scenografa Marianna Sciveres, di mettere dei faretti in campo, perché se c’è un accertamento di un incendio di notte i carabinieri e i vigili del fuoco realmente portano delle piccole luci, e, grazie a questi faretti in controluce, riuscivamo a “leggere” la pioggia quasi sempre. Dal canto mio  ho aggiunto come luce extradiegetica un HMI a scarica da 4000 Watt su una gru, per aumentare un po’ di più l’effetto controluce, che forse era un sovrappiù rispetto alla concezione dell’immagine e della fotografia che Salvatore ed io ci eravamo dati per Assandira, ma un sovrappiù necessario per vedere bene la scena. Alla fine siamo riusciti a fare questa sequenza che copre i minuti iniziali del film proseguendo alla stessa maniera anche dall’altra parte del caseggiato, con Costantino che regge il figlio come la Pietà, altro evidente riferimento iconografico. Anche per quella scena abbiamo usato dei faretti, nessuna grossa illuminazione; lungo tutto Assandira ho sempre cercato di giustificare la luce, di avere cioè in campo delle fonti di luce che non rendessero la luce “inventata”.

La scena successiva si sposta in interni ma la pioggia continua a cadere attraverso gli squarci del tetto. L'ispettore, interpretato da Corrado Giannetti, si aggira intorno a Gavino Ledda, cercando di carpire da lui la verità. Questa scena sembra coagulare un mix eterogeneo di suggestioni fra Sciascia, Petri e Tarkovskij. Tu e Mereu come vi siete coordinati per coreografare i movimenti degli attori e i movimenti di macchina in questa sequenza? Come hai ottenuto il chiaroscuro e il continuo cambio di luminosità sul volto dell'ispettore?

La pioggia che continuava a cadere anche in interni era un’idea di Salvatore, che voleva che lo spettatore si sentisse infreddolito e umido in questa notte che diventa un’alba che sembra non finire mai. Le scene iniziali del film sono quelle più dense di significato e di emozioni, e avere anche negli interni questi scrosci d’acqua voleva trasmettere l’impressione che il fuoco avesse intaccato anche il soffitto delle costruzioni, che non ci fosse riparo da questa pioggia purificatrice. La complessità per quanto riguardava la pioggia c’è stata anche per quella scena all’alba. Non ci poteva essere il sole che entrava dalle finestre. Giravamo al tramonto per rappresentare l’alba e per un paio di giorni dovemmo dedicare l’ultima ora-ora e mezza della giornata a quella scena. Essendo un casolare che aveva quattro o cinque finestre per lato, avevo lasciato tutte le finestre sul lato sinistro libere, mentre avevo tappato tutte le finestre a destra con dei panni neri; per completare il piano sequenza, mano a mano che calava la luce del sole aprivo qualche finestra e attivavo dei proiettori filtrati per mantenere la stessa luminosità. Questa soluzione faceva sì che in qualunque punto del caseggiato si trovassero i personaggi la luce era di taglio. Quello che ho evitato sempre in questo film, d’accordo con Salvatore, era che ci fosse luce da dietro la macchina, diffusa, luci da sinistra o da controluce. Mano a mano che la luce se ne andava via, “stappavamo” qualcosa, ma la luce restava sempre da tre quarti dietro la macchina. L’ispettore passa davanti alla finestra, prende un guizzo di luce ma subito la luce si dirada, magari va anche in nero ma, così come in Futuro prossimo, di questo non ci siamo mai preoccupati: se non vedi metà della faccia è perché la scena è drammatica, tanto lo spettatore vede gli occhi e quasi sempre li vede tutti e due. Lo stile di regia di Mereu può dare forse l’idea che le scene siano quasi improvvisate, come se ci limitassimo a prendere la macchina da presa e a seguire gli attori, in realtà ogni scena viene ponderata e provata per due o tre ore prima di iniziare effettivamente a girare, anche se non disegnamo le posizioni esatte col gesso per terra come si fa su altri set ‒ in molte location, semplicemente, non potremmo. Impostavamo un campo di massima in cui la luce va grosso modo sempre bene, se poi la luce naturale scendeva avevamo un proiettore pronto per simularla, ma anche in quel caso si trattava di una soluzione molto semplice: Assandira è un film che, nonostante la sua complessità, voleva essere semplice e non leccato, anzi crudo, ruvido. Qualche accorgimento stava semmai nell’impostare bene la traiettoria della macchina, poi il personaggio si poteva muovere nell’ambiente e dovunque andasse prendeva e perdeva della luce dinamica. Girando così non perdi mai quello che può darti l’attore, non metti stativi a terra nei quali deve stare attento a non inciampare... I campi erano sempre liberi e tutto era luce naturale o comunque esterna. Come concezione è molto semplice, un po’ difficile da attuare nella pratica perché se i ciak si prolungavano si rischiava concretamente che la luce naturale diminuisse. A questo, come ho detto, si poteva però porre rimedio: la cosa più importante era avere gli attori liberi, non mettere limiti al loro muoversi e camminare.

Tutto il film in effetti si articola attraverso lunghi piani sequenza, con intere scene senza alcuno stacco di montaggio, ma l'effetto non è quello da "macchina a mano" puro e duro, i movimenti della camera hanno una fluidità che contribuisce a dare ad Assandira un sapore organico e tragico. Come ti coordinavi con l'operatore per i piani sequenza? Quali strumentazioni avete dovuto operare per evitare che l'inquadratura fosse troppo mossa?

Ogni volta c’era un’idea di messa in scena che veniva da Salvatore, i movimenti che voleva far fare agli attori erano concepiti per trasmettere quello che lui voleva rappresentare con quella scena: i piani sequenza erano concertati da lui, ma l’esecuzione era un insieme di competenza tecnica e sensibilità dell’operatore. Con l’operatore di macchina Giuliano Molle, che già conoscevo, ho avuto una sintonia incredibile e lo stesso è successo tra lui e Salvatore e tra lui e gli attori. Il ruolo dell’operatore è molto delicato in quanto lui è l’occhio del regista, è quello che sta davanti agli attori e si coordina con gli attori nei movimenti. Giuliano ha sicuramente colto l’idea di messa in scena di questo film e poi l’ha realizzata. La cosa spettacolare, secondo me – glielo dico ancora, e glielo dice anche Salvatore –, è che sia riuscito a ottenere questo effetto semplicemente con una camera con il rig. La camera di Assandira è libera, segue il personaggio. Ma il personaggio si può alzare, si può abbassare… nel cinema classico per seguirlo si usa il braccio idraulico. Noi invece abbiamo usato un easy rig, che ti consente di spostare l’inquadratura da altezza spalla fino addirittura a sotto il viso, cosa che sarebbe impossibile con una camera a spalla tenuta con lo spallaccio. Ciò che ancora adesso sorprende sia me che Salvatore è il fatto che, vedendo il film, non sembri una camera a spalla, ma piuttosto quasi un unico carrello. Giuliano è riuscito a dare a questo linguaggio la possibilità di essere libero, senza i binari e gli inevitabili limiti che ha di solito il carrello, e questo evitando, come accade in molti film, che la macchina da presa pedini i personaggi sballonzolando, giustificata dal fatto che «la forma è funzionale al racconto». Assandira era un film comunque classico, che voleva coniugare la libertà di muoversi degli attori con un’inquadratura stabile, e Giuliano è riuscito in maniera eccelsa a fondere la libertà di una camera a spalla con la libertà di un carrello, mettendoci la sua sensibilità, perché l’operatore non è un mero esecutore,  aggiunge il suo gusto nella composizione e la sua relazione con gli attori. Siamo arrivati a fare anche 60 ciak della stessa scena, Giuliano la faceva sempre uguale, riuscendo ad accontentare Salvatore e al tempo stesso a tenere sotto controllo, a occhio, le distanze necessarie – girare sempre con il 40mm con gli attori a un metro e mezzo di distanza è un’operazione chirurgica. C’è stata da parte sua anche una certa dose di sacrificio fisico. Ovviamente non voglio mettere in ombra le indubbie capacità di Salvatore di dirigere le scene e di coordinare i movimenti degli attori e degli interpreti, ma Giuliano è stato capace di concertare anche in soli cinque minuti scene con 20 comparse, riuscendo a farle apparire moltiplicate come in un film di Tornatore con 10 assistenti a coordinare le posizioni e i movimenti. Se un attore faceva due passi in più lui doveva aggiustare tutto in pochi istanti, e siccome questo è un periodo in cui si discute dell’importanza dell’operatore nell’organico della troupe, ci tengo a dire che Giuliano per me è stato decisamente un valore aggiunto. Non avrei mai potuto fare la macchina così, in questo film.

A parte una partecipazione all'evangelico Su Re di Giovanni Columbu, Assandira segna il ritorno di Gavino Ledda come attore e come attore protagonista. Rispetto ai tempi di Padre padrone e del suo Ybris, la tua fotografia ne evidenzia il volto scavato e vissuto. Cosa si prova a riprendere un uomo che in un certo senso incarna quarant'anni di cultura e cinema sardi?

Per me l’idea di girare un film con Gavino Ledda era quasi surreale; già ero felice di fare un film con Mereu alla regia, poi ritrovarmi con Ledda in persona, che è un Nuragus della cultura sarda, è stata una fortuna, un’occasione, non so come definirlo. Nei primi giorni Ledda dormiva vicino a noi, Salvatore mi ha chiamato per capire come si metteva la giornata quanto a luminosità – stavamo in montagna a 800 metri al centro della Sardegna e il tempo faceva un po’ come gli pareva. Volevo prendere l’auto per andare sul monte a vedere se si avvicinavano delle nuvole. Gavino stava fuori dal suo alloggio e, non sapendo cosa fare, è salito in macchina con noi. Erano i primi giorni di set, avevo in macchina una cassetta di canti a tenores e Gavino, che ha voce stupenda, si è messo a cantare tutto il tragitto: eravamo immersi in una nebbia degna di Amarcord e ci bastava voltare la testa per ritrovarci con Gavino Ledda nei sedili posteriori che cantava. Mi sembrava davvero di essere in un sogno. Riguardo al suo viso... Tu inquadri un viso che oltre che una storia letteraria ha una storia umana, perché tutto quello che racconta nel suo libro Padre padrone Ledda se lo porta dietro, sul volto, sulla pelle. Una faccia come la sua la puoi inquadrare con qualsiasi luce, con qualsiasi lente... ha un tale portato e una tale energia da trasmetterti sempre qualcosa. Appena la inserisci in un contesto filmico ‒ che è scenografia, costume, luce che evidenzia e rimarca questo portato ‒, appena fai un suo primo piano, hai un’immagine che spacca lo schermo. In generale, una delle cose che mi è sembrata cruciale del cinema di Salvatore è che lui fa casting che durano anni e ha un vero e proprio archivio di facce, per cui ognuno dei volti che vedi nei suoi film è “vero”. Secondo me in un film puoi mettere di tutto – la luce bella, il tramonto, i costumi, le scenografie – ma se ci metti una faccia che non funziona non avrai nulla da quel quadro. Gavino Ledda ha una faccia che funzionerebbe anche se non fosse Gavino Ledda, ma soprattutto ha un portato che trasmette qualcosa e di questo Salvatore era anche un po’ preoccupato, temeva il rischio che Gavino Ledda fosse riconosciuto come Gavino Ledda e non diventasse completamente Costantino Saru. Poi Ledda si è talmente calato nella parte che sembrava fatto ad hoc, non era più Ledda ma Saru. Quello che è accaduto per tutti i personaggi di Assandira è che tutti gli interpreti hanno portato ai personaggi qualcosa del loro vissuto. Gavino Ledda è Costantino Saru, Marco Zucca è Mario, Anna König è Grete. Nelle molte settimane di ripresa, gli interpreti si fondono ai personaggi e i personaggi si fondono agli interpreti, Salvatore dà loro delle cose e loro ne attingono altre dalla loro vita, e così, di scena in scena, i personaggi acquistano tridimensionalità e diventano veri. Vedevi in Mario qualcosa di Marco, in Peppe Berio qualcosa di Samuele, Gavino era più imperscrutabile ma in lui si fondevano qualcosa di personale, qualcosa di Salvatore, qualcosa di Costantino, in una strana mescolanza di cinema e vita che forma qualcosa di altro e che permette ai personaggi di risplendere come esseri umani autentici. Francamente questa cosa non la trovo spesso, ma con Assandira sembrava davvero di stare in mezzo ai personaggi. Ecco, potremmo paragonarlo a Kechiche: in suo film ti sembra di stare lì dentro, in mezzo a persone, e vorresti restarci, vorresti continuare ad assistere alla loro vita. Forse è una cosa che accade più con interpreti non professionisti che con professionisti. 

Come avete realizzato tecnicamente la sequenza dell’incendio dell’agriturismo? Quanto di quello che vediamo è stato realizzato sul set e quanto invece è frutto di effetti speciali?

La sequenza dell’incendio l’abbiamo realizzata sempre col supporto dei VFX dei Galiano; l’incendio è tutto fuoco vero, nel senso che sono state messe delle flame bar – delle bombole e delle barre in zinco da cui esce il fuoco – come fondi, e fuochi fatti con la legna in altri angoli. A livello di VFX in senso stretto si è solo un po’ implementata la striscia di fuoco, il resto è stato fatto tutto dal vero, cosa che aggiunge tanto anche alla recitazione. Leggendo la sceneggiatura avevo pensato che ci saremmo appoggiati di più agli effetti speciali e che avrei dovuto mettere dei proiettori sotto dimmer o fare la frequenza del fuoco con i moderni skypanel, ma una volta sul set mi sono accorto che il fuoco bastava e avanzava per illuminare; al massimo, se mi serviva una luce o un taglio, facevo aggiungere un’altra flame bar. Le uniche luci che ho aggiunto mi servivano per illuminare il Land Rover di Mario quando torna a spegnere il fuoco. La scena della morte di Mario all’interno della struttura in fiamme richiedeva altri punti luce e per ottenerli abbiamo messo delle travi, come se fossero cadute dal tetto, e sulle travi abbiamo spalmato del gel infiammabile che produceva delle strisce di fuoco anche vicino al personaggio. Sarebbe stato pericoloso realizzarle in altro modo. Un problema era nella durata della scena: ci siamo dovuti organizzare per “accendere” il gel subito dopo aver dato il ciak, perché altrimenti la fiamma si sarebbe esaurita prima che Marco Zucca arrivasse in quel punto. Avere un fuoco vero sul set sicuramente ti permette di avere un effetto realistico, che i personaggi si tagliassero contro il fuoco e per qualche secondo andassero totalmente in nero non mi importava, era realistico. Assandira è stato in fondo un film votato a una semplicità tecnica funzionale a rendere tanto.

Come avevate impostato la LUT prima di iniziare le riprese? In post-produzione quali sono stati i tuoi principali interventi sull'immagine e sul colore?

Come ho detto, in partenza avevamo fatto dei provini che ci avevano fatto capire verso dove volevamo andare riguardo al look generale del film. Non sono se parlare di una vera e propria LUT perché Ercole Cosmi, il colorist, ci ha seguiti fin dall’inizio ed è stato sul set durante la prima settimana. In quei giorni Ercole curava personalmente i giornalieri e ha fatto una visualizzazione ‒ se vogliamo possiamo chiamarla LUT ‒ che permetteva di vedere più contrastato il girato quotidiano. La mia preoccupazione era quella di fornire, già in fase di montaggio, delle immagini che si avvicinassero il più possibile al tono definitivo. Per me era una cosa molto delicata perché, se stai a lungo in montaggio, ti affezioni a quello che vedi ed è difficile andare in un’altra direzione. Siamo arrivati in color con un film, che bene o male, a livello di look visivo, era quello che si vede al cinema. La cosa che abbiamo fatto, molto importante, è stato agire a livello di dinamiche. Facendo questi lunghi piani sequenza spesso si andava da zone con una luminosità molto alta a zone più in sottotono; in fase di ripresa avevo il diaframma remotato e facevo cambi di diaframma anche durante le scene, ma quello che avevo ottenuto sul set poteva sicuramente essere migliorato: abbiamo fatto un lavoro molto accurato per rendere più omogenei i piani sequenza. Se passi da una zona totalmente in controluce a una zona con luce di piatto, anche se luce è la stessa la sua incisione cambia e questo lo devi aggiustare. Con Ercole abbiamo anche agito sul contrasto e siamo andati ad aggiungere grana ‒ adesso c’è questa possibilità ‒ con scansioni fatte direttamente da vecchie pellicole: puoi scegliere grana del 35mm, del 16mm, della Fuji, della Kodak, noi abbiamo scelto una Fuji Academy per ottenere una pasta che ricordasse un po’ quella della pellicola e togliesse la sensazione del digitale, per rendere tutto un po’ più organico e vitale. C’era poi la questione che il film ha differenti mood a seconda che le immagini appartengano ai flashback o al presente; c’è una parte molto solare legata alla nascita dell’agriturismo Assandira, c’è la parte della catastrofe, c’è una sezione con dei toni più blu relativa all’alba, c’è un breve momento in cui la luminosità del fuoco è predominante, c’è la sequenza a Berlino, più fredda. Dovevamo cercare di marcare queste differenze ma al tempo stesso renderle omogenee. Abbiamo lavorato molto anche sull’omogeneità della grana perché ci potevano essere immagini di per sé più “sofferenti” ‒ spesso abbiamo girato veramente con luci basse e la macchina tirava fuori un po’ di rumore digitale ‒ mentre altre immagini, esterni giorno, erano brillanti. Abbiamo messo un 80% di grana in scene diurne, che sono più pulite, e un 50% in quelle notturne, che erano già un po’ più sporche, per cercare di rendere tutto con la stessa pasta. Era una cosa a cui sia io che a Salvatore tenevamo tanto. Per il fatto che Ercole aveva fatto giornalieri su tutto il girato, già in montaggio si aveva un film visivamente buono e il successivo lavoro di color è durato due settimane, più un paio di giorni per rivedere tutto. 

Assandira è l'ultima tappa di una lunga tradizione di "cinema sardo" che fa capo a Banditi a Orgosolo di De Seta. Uno dei temi portanti del film è il contrasto tra la percezione turistica della Sardegna nel mondo e la sua realtà effettiva, e quello che potrebbe essere il suo progresso. Dopo le "incursioni" di De Seta e dei Taviani, la Sardegna è diventata una vera e propria terra cinematografica che ha dato natali a registi significativi come Mereu, il già citato Columbu, Gianfranco Cabiddu, la “new entry” Mario Piredda, solo per ricordarne alcuni. Come pensi che cambi la narrazione cinematografica della Sardegna quando siete voi sardi a farla?

De Seta ha approcciato dapprima le realtà della Sicilia, in quanto siciliano, poi si è spostato a rappresentare la realtà della Calabria e della Sardegna. Nascendo come documentarista conosceva bene la realtà dei fatti, stava con le persone e viveva quella realtà, se ne appropriava quasi, ne faceva parte. I fratelli Taviani hanno preso il libro di Ledda, scritto da un sardo e che conteneva tanto della nostra realtà, per trasporlo in una forma che travalica il libro. Gavino non sarà contento, ma secondo me il film dei Taviani è un grande film. Certo, c’è la questione del parlare di cose che si conoscono. La cosa che conta per me è che ogni regista racconti, con il proprio sguardo, le cose che conosce. Alcuni adesso ambientano storie in Sardegna solo perché può essere una soluzione produttivamente conveniente, ma al tempo stesso una persona che viene da fuori può avere una fascinazione o una visione diversa che aggiunge significato alla nostra isola. In questo momento sto girando Upside Down di Luca Tornatore in Puglia: filmare un luogo che non conosco o conosco in parte sicuramente è diverso che filmare una realtà ben conosciuta. 

Il cinema ha un grande valore, antropologico, sociale e cinematografico, come fatto d’arte. Queste storie sono storie universali, partono dal locale e lo rendono universale. I film di Mereu, Piredda o Angius difficilmente potrebbero essere fatti da qualcuno che viene da fuori, ma questa è una mia idea. La Sardegna ha un’energia e un’aura molto forti, e non lo dico da sardo, è una terra che ha davvero un portato significativo in termini di tradizione e di antropologia. Essendo un’isola, le sue forze provengono sia dalla terra che dal mare. In Sardegna credo si faccia un grande cinema. L’agnello di Piredda ancora non l’ho visto ma i suoi corti erano ottimi e il suo è un cinema che va al di là dall’essere sardo, racconta le nostre contraddizioni ma anche la nostra forza ed energia. Assandira è una storia sarda che narra una questione sarda, quella dell’identità, e il fatto di non riuscire nemmeno a padroneggiarla. Abbiamo una storia millenaria di conquiste da ogni dove; insieme alla visione di Costantino, il film mostra la ragnatela che gli viene  tessuta intorno: viene circuito prima dal figlio, poi dalla nuora, poi dal commissario. Un racconto come quello di Assandira, mi viene da pensare, può farlo solo un sardo, ma è una cosa difficile da stabilire. A parte De Seta e i Taviani, non conosco altri film di non sardi che abbiano raccontato storie sarde. L’aiuto della Film Commission è importante, ma rischia di trasformare tutto in macchietta se si fa un casting poco accorto. Nei registi sardi che anche tu hai nominato sento una sincerità di fondo e una conoscenza della terra, un occhio che sta dentro e conosce. Per De Seta era lo stesso, semplicemente perché per Banditi a Orgosolo si è immerso nel territorio e nel suo popolo, così come aveva fatto in Barbagia, così come faceva  Malinowski andando nelle isole Trobriand: ci si immerge in una realtà, si mangia insieme a chi la abita, si condividono gli usi, i costumi, le tradizioni locali, e solo allora si può iniziare a raccontare. Se si procede così, chiunque può raccontare un popolo, altrimenti lo può raccontare chi lo vive. Sono molto ottimista sul futuro del cinema sardo ma non vorrei far sembrare la Sardegna un ghetto: sono storie universali sia Assandira che L’agnello. Nel film di Piredda c’è sullo sfondo la storia dei rifiuti militari in Sardegna, ma, per dire, una storia simile potrebbe essere ambientata anche a Taranto. Tutte le storie in fondo hanno una valenza sociologica e antropologica, almeno per quel che mi riguarda e per il cinema che mi interessa vedere e fare. 

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