Gli occhi che hanno visto l’Imperatore. Note su Giuseppe Rotunno

Nell’ambito della nostra raccolta di testimonianze e pensieri per ricordare Giuseppe Rotunno, siamo felici di pubblicare l’introduzione della testi di laurea di Michele D’Attanasio, stimato autore della fotografia, che - appunto - ha scelto di laurearsi con un lavoro dedicato all’autore della luce di Visconti e Fellini.

Uno dei miei primi incontri con Giuseppe Rotunno: appena mi siedo nota che il sole proveniente dalla finestra mi arriva violentemente in faccia. Quasi preoccupato per questa situazione, si dirige verso la finestra e, muovendo le ante, “diaframma” i raggi solari dal mio volto. Per compiere l’operazione, che fin qui potrebbe essere stata compiuta da un qualsiasi padrone di casa scrupoloso verso il suo ospite, mentre chiude le ante mi osserva per vedere fin dove bloccare la luce. Ebbene, ho immaginato che quel suo breve sguardo, rivolto verso di me, sia stato lo stesso che lo ha accompagnato per tutti i sessant’anni della sua carriera di direttore della fotografia. Quegli occhi, che ora attentamente osservano la luce diretta sul mio volto, sono gli stessi che, compiendo la medesima operazione, hanno incrociato gli sguardi di Ava Gardner, Marlene Dietrich, Marlon Brando, Marcello Mastroianni, Anna Magnani, Sophia Loren… Roland Barthes deve essersi emozionato allo stesso modo quando, vedendo una fotografia dell’ultimo fratello di Napoleone, escalmò “Sto vedendo gli occhi che hanno visto l’Imperatore”. Ma mentre Barthes non poteva ovviamente rivolgere domande a Girolamo, fratello di Napoleone, io ho avuto, invece, questa fortuna.

Non si pensi che Giuseppe Rotunno, classe 1923, sia un’icona di se stesso o che abbia il piacere di sprofondarsi comodamente nei ricordi: “Non sono un raccoglitore di memorie: il passato è passato, quel che conta è il presente; semmai più il futuro di quel che sta dietro alle nostre spalle”, così mi ha accolto la prima volta che ci siamo visti. Anche se l’ultimo suo film risale al 1996, La sindrome di Stendhal di Dario Argento, Giuseppe Rotunno è una persona dai mille impegni. Oltre alla docenza, si badi bene che si tratta di una docenza molto attiva e non di una cattedra ad honorem, alla Scuola Nazionale di Cinema, ha restaurato decine e decine di capolavori del cinema italiano, molti dei quali sono stati fotografati, anni e anni fa, da lui stesso.

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“Non mi fido di nessuno”. Non è un’affermazione di sfiducia verso gli altri, ma la ferrea volontà di avere il più possibile la padronanza dei mezzi che si hanno a disposizione. Molto spesso nel campo della fotografia cinematografica viene annunciato l’arrivo di nuovi materiali (emulsioni, macchine da presa, obiettivi, accessori vari) destinati per motivi di qualità e affidabilità, a sostituire velocemente i precedenti. Il direttore della fotografia accorto non deve fidarsi ciecamente di queste affermazioni ottimistiche ma dovrà personalmente testare in modo scientifico i nuovi macchinari e poi valutare se possono essergli utili. Esemplificativa è quest’affermazione di Rotunno sulla scelta delle pellicole negative per la ripresa: “Ho cambiato pochissime pellicole in vita mia perché ritengo che più si conosce bene una singola emulsione e più si ha la possibilità di variarne le caratteristiche. Più ne conosciamo i limiti e più possiamo variare la gamma della qualità fotografica. A volte bastano piccoli cambiamenti per modificare le cose, cioè si rompe la monotonia dello standard qualitativo. Una pellicola è tanto più qualificata per me quanto più mi permette di evadere dalle regole”.

Ma in tanta scientificità c’è di mezzo il talento: “It’s difficult to ask a painter, ‘How did you paint the picture?’. I go with my eyes and intuition”. Con questa affermazione Rotunno ritira nel 1999 l’American Society of Cinematographers’ International Award per il suo contributo artistico alla storia del cinema. Sempre nello stesso anno riceve un altro prestigioso riconoscimento: il CamerImage Lifetime Achievement Award for Cinematography. In quest’occasione rilascia un’interessante dichiarazione, facendo un paragone con le sette note musicali, sul metodo di raccontare attraverso la luce: “I think you only have seven notes with music. The art comes from how the composer puts them together and creates dramatic contrasts. In cinematography we have three notes: key, fill and back light. The art comes from how we put those notes together to create dramatic contrast. You can learn the techniques, but the art comes from your heart”.

Le tre note a cui fa riferimento Rotunno sono appunto la key light, ovvero la luce principale, la fill light ovvero la luce diffusa e la back light ovvero il controluce. Questo sistema triadico ha delle funzioni ben definite: la luce principale, detta anche luce di taglio, il cui scopo è quello di modellare la sagoma dell’attore; la luce diffusa, di compensazione o riempimento, usata per dare luce all’ambiente; infine il controluce, il cui scopo è quello di staccare la figura dell’attore dallo sfondo circondandone i capelli di un alone luminoso e di norma posta dietro l’attore in alto. Effettivamente con questa impostazione si può realizzare ogni tipo di immagini, ma è facile cadere nell’accademico, rischiando di ottenere uno standard qualitativo sufficiente ma “piatto”, poiché non rappresenta alcun tipo di ricerca da parte dell’autore della fotografia.

Rotunno sperimenta molto e tiene a battesimo diverse innovazioni nel campo della cinematografia mondiale. Nel 1955 gira il suo primo lungometraggio da direttore della fotografia Pane, amore e… sperimentando, primo in Italia, il Cinemascope, con le sue ottiche anamorfiche dalla difficile gestione tecnico-artistica. Prima di lui, nel resto del mondo, si erano cimentati nella difficile impresa solo pochi direttori della fotografia, come Leon Shamroy o Jack Hildyard. Nello stesso anno Rotunno sperimenta il Technirama con il film Montecarlo Story. È uno dei primi al mondo, poiché il formato Technirama è utilizzato per la prima volta in quell’anno. Continuerà a girare in questo formato anche La maya desnuda e Anna di Brookyln. Lo riprenderà poi in seguito girando nel 1962 Il Gattopardo, modificando, in quel caso, il formato della pellicola di proiezione, portata a 70mm con il nome Supertechnirama. Nel 1963 con Ieri, oggi e domani utilizza il Techniscope, il formato caro a Sergio Leone, inventato dagli italiani Giovanni Ventimiglia e Giulio Monteleoni. Le innovazioni continuano quando nel 1964 inizia a girare La Bibbia con un altro formato assolutamente innovativo: il Dimension150. Con questo formato 70mm uscirà solo un altro film nella storia del cinema: Patton, per la regia di Franklin J. Schaffner e la fotografia di Fred J. Koenekamp. In tempi più recenti (1986) Rotunno gira Giulia e Giulia, realizzato completamente in alta definizione con lo standard HDTV. Nel 1989 gira il cortometraggio Il sogno di Leonardo con un sistema dal nome Showscan che impressiona cinque perforazioni di un fotogramma negativo da 70mm a 60 fotogrammi al secondo.

Le innovazioni tecniche sono quindi all’ordine del giorno per Giuseppe Rotunno. Ma a volte, nel corso della sua lunga carriera, non sono state le migliorie tecnologiche ad attirare la sua attenzione. “A volte i difetti diventano qualità, è difficile conoscerli perché nessuno se li crea, ma aprono un orizzonte di studio vastissimo”. A tale scopo fa tuttora liberamente provare, sempre però sotto la sua attenta supervisione, vari modi d’illuminazione ai suoi allievi della Scuola Nazionale di Cinema. Così come con scientificità (tramite provini della macchina da presa, lo studio delle emulsioni, le varie prove di sviluppo e stampa) si affronta la conoscenza delle nuove innovazioni, allo stesso modo i difetti, opportunamente usati, possono giovare alle esigenze di un autore della fotografia. Quando nel 1959 gira La grande guerra, Rotunno ricrea un effetto cinematografico anni ’10 facendo saltare alcuni passaggi nella fase dello sviluppo. L’effetto visivo, molto d’impatto, è frutto di uno sbaglio di laboratorio, accaduto anni prima al datore di luci Ernesto Novelli.

Il lavoro di Rotunno, nel corso di oltre mezzo secolo, è stato, e lo è tuttora, la volontà di rappresentare per immagini le migliaia e migliaia di pagine delle sceneggiature che sono state a lui affidate. Rappresenta la volontà di entrare nelle menti dei registi, dai più visionari, ai più tecnici, ai più professionisti. Rappresenta la ferrea disciplina nel testare ogni singolo procedimento che porta alla formazione delle immagini in movimento. Questa tesi è la storia di un uomo appassionato del suo lavoro, da lui realizzato con la sorprendente manualità di un artigiano, la gestione organizzativa di un manager e l’irresistibile talento di un genio.