Il tempo ritrovato. Conversazione con Walter Fasano [seconda parte]

Pubblichiamo la seconda parte dell’intervista a Walter Fasano (Bari, 1970), uno dei principali montatori italiani, e regista e sceneggiatore.
Ricordiamo che dal 3 ottobre è su Mubi il film da lui scritto e diretto
Pino, dedicato a Pino Pascali. Lo trovate qui. Nella foto di copertina Walter Fasano con Fabio Sargentini.

 

leggi la prima parte dell’intervista

Dopo l’exploit di Io sono l’amore, candidato al Golden Globe e lodato fra gli altri anche da Tarantino e da Paul Thomas Anderson, arriviamo A Bigger Splash, libero rifacimento del cult La piscina di Jacques Deray, interpretato da Tilda Swinton, Ralph Fiennes, Matthias Schoenaerts e Dakota Johnson. Come era nato e come si era sviluppato il progetto? In che misura avete tenuto conto, in fase di ripresa e di montaggio, dell’originale La piscina, oltre che del quadro di Hockney che dà il nuovo titolo al film?

Si trattava di un film su commissione. Non credo che La Piscine interessasse a Luca particolarmente, se non per alcune possibilità narrative. Anche dal punto di vista del montaggio il film originale non ha rappresentato un riferimento.

A Bigger Splash mette in scena una complessa “geometria del desiderio” che si viene a creare tra quattro personaggi in vacanza a Pantelleria. Dal tuo punto di vista come è cambiato il ritmo del film rispetto al precedente Io sono l’amore?

A Bigger Splash è un film complesso, cattivo, “spietato”, senza compromessi, con attori straordinari che hanno regalato performance meravigliose sulle quali è incredibilmente interessante lavorare. Attorno alle loro interpretazioni ruotava la ricerca della costruzione del film. La prima stesura del film durava quattro ore e dieci, e penso fosse molto bella. Era emozionante perdersi nei tempi dilatati del film, un respiro molto significativo.

Come hai montato la scena madre del film, quella dell’annegamento in piscina del personaggio di Ralph Fiennes?

Quella è stata una scena piuttosto semplice, si è montata da sé: ricordo che desideravamo fosse brutale. Altre scene risultarono invece più complesse. De Palma, Scorsese e Thelma Schoonmaker erano per noi (come spesso accade) un riferimento che cercammo di interiorizzare, fare nostro.

Nel 2017 è stato presentato al Sundance Film Festival Chiamami col tuo nome, terzo film dell’informale “trilogia del desiderio” di Guadagnino e a oggi il suo più grande successo: riproposto ai Festival di Berlino, di Londra e di San Sebastian, ha avuto tre candidature ai Golden Globe e quattro agli Oscar, vincendo per la sceneggiatura. Anche in questo caso si trattava di un progetto lungamente inseguito: come era nato il suo coinvolgimento nel film e quali erano questa volta i suoi presupposti produttivi?

Peter Spears, uno dei produttori del film, aveva acquisito i diritti del romanzo di André Aciman. Peter conosceva Luca e lo coinvolse nel progetto in qualità di consulente, e poi coproduttore, in quanto la storia era ambientata in Italia. Proposero il film a diversi registi arrivando infine a James Ivory, senza riuscire a far partire il progetto. Luca infine decise di dirigerlo, come un piccolo film dal piccolo budget. Erano passati parecchi anni dall'inizio del progetto.

La sceneggiatura, tratta dal romanzo di André Aciman, è ufficialmente firmata dal solo James Ivory, regista di culto di film come Camera con vista o Maurice, ma tu e Guadagnino siete accreditati come collaboratori. Come si è svolta la collaborazione al tavolo di scrittura del film? Quali elementi del romanzo di Aciman avete tolto o modificato?

Non è proprio così. In alcuni paesi (Italia e Francia ad esempio) siamo accreditati come co-sceneggiatori, in America il nostro nome è assente. Semplicemente il WGA (Writers Guild of America), il potentissimo ente che si occupa di curare i diritti degli sceneggiatori negli Stati Uniti, ha arbitrato, a tutela di James, contro la presenza del nostro nome sul mercato americano. In Italia abbiamo vinto il David, l’Oscar lo ha vinto solo James. La verità è che il film lo hanno scritto James e Luca, e successivamente io ho fatto un’importante revisione con Luca, cambiando alcuni elementi fondamentali.

Cosa avete cambiato rispetto al libro di Aciman e alla prima stesura di Ivory?

Su fulminante intuizione di Luca, ad esempio, abbiamo trasportato il film “somewhere in Northern Italy”, mentre la prima sceneggiatura di James e Luca era ambientata al mare in Sicilia. Si è trattato di una vera e propria rivoluzione. Molti personaggi erano diversi, soprattutto Marzia e Chiara, nel loro rapporto con Elio e Oliver. Abbiamo tagliato e riscritto molte scene, anche di Elio e Oliver.  Una su tutte, la fuga d’amore nel sottofinale di Elio e Oliver sulle Alpi Orobie e a Bergamo, e poi l’incontro con i ragazzi “New Romantic” che ascoltano gli Psychedelic Furs in piazzetta quando Elio vomita.

Nella scrittura, nelle riprese e nel montaggio di Chiamami col tuo nome, quali sono stati i principali riferimenti tuoi e di Guadagnino?

C’era soprattutto il cinema francese degli anni ’80: quello “estivo”, di campagna, di Rohmer e Rivette, alcune suggestioni di Maurice Pialat, ma anche quello più commerciale di Claude Miller.

Eri presente sul set di Chiamami col tuo nome? In generale, tendi a stare sul set dei film che monti?

Non mi piace stare sul set dei film che monto ma ero spesso sul set di Chiamami col tuo nome. Posso testimoniare che le riprese furono funestate da una pioggia incredibile e inaspettata, nelle scene in interni tutta l’estate è stata ricreata da quel maestro della luce che è Sayombhu Mukdeeprom: fuori in verità diluviava. Andavo a lavorare col portatile nella villa di Mostacciano, il set del film, quasi sempre nella stanza che ospita il dialogo finale fra Elio e suo padre. Faceva un freddo implacabile! La moviola invece era a Crema. Conservo un ottimo ricordo di quel periodo. Sul set sono tornato solo per alcune scene delicate: ad esempio quella della pesca. Tutto andò molto tranquillamente grazie alla professionalità della troupe, alle idee chiare di Luca e al grande talento di Timothee Chalamet.

Come mai Guadagnino ha voluto farti montare il film prima della fine delle riprese?

È una modalità di lavoro come un'altra, dipende dalle esigenze del caso. Ho completato la prima stesura pochi giorni dopo la fine delle riprese, la post-produzione è stata breve.

Dopo una ritmata sequenza di titoli di testa la scena iniziale di Chiamami col tuo nome mostra l’arrivo del dottorando Oliver nella casa di campagna in Nord Italia della famiglia Perlman. Come hai montato i primi minuti del film e le differenti prospettive sull’arrivo di Oliver?

La realizzazione dei titoli di testa è di Luca: il montaggio ovviamente è mio ma è una sequenza molto sua, dall'ideazione alla realizzazione definitiva. Il film è stato girato in cronologia, seguendo l'ordine di scene del copione, quindi la scena d’apertura con l’arrivo di Oliver è stata una delle primissime a essere girate e arrivate in moviola. Da subito ho capito che c'era qualcosa di magico. Dal punto di vista del montaggio si trattava di non avere fretta e lasciar respirare i materiali del film. Sapevo che avremmo trovato il ritmo.

Chiamami col tuo nome è un film impregnato di sensualità, più evocata che mostrata: per scene come quelle dei rapporti tra Oliver ed Elio o tra Elio e Marzia, sulla base di cosa avete scelto quali momenti mostrare e quali momenti non mostrare? Erano state impostate così come le vediamo già sul set oppure avete operato dei tagli in fase di montaggio? Ricordo alcune critiche mosse da Ivory a proposito dell’assenza di nudità maschile dal film…

James aveva scritto una sceneggiatura più esplicita: a Luca sembrò inutilmente voyeuristica, e di certo lui non si è mai vergognato di mostrare nudi integrali maschili e femminili o sesso sullo schermo. Semplicemente riteneva/ritenevamo fossero dinamiche estranee al film. Nel girato c’era qualcosa di più esplicito nella scena d’amore tra Elio e Marzia, ma anche in questo caso spostava il fuoco del racconto, della scena: mentre fanno l'amore Elio pensa a quando incontrerà Oliver. E la “scena della pesca” è molto intensa e riuscita pur essendo l'azione tutta fuori campo. La visione esplicita dell’“atto meccanico” avrebbe semplicemente distratto.

Come si è svolto il montaggio delle immagini che mostrano il viaggio di Elio e Oliver a Bergamo, e il loro addio alla stazione?

Anche in questo caso si è trattato di assecondare il respiro del girato, ad esempio di quegli intensi fuori fuoco sull'ultimo bacio dei ragazzi. Un giorno abbiamo ricevuto una comunicazione spaventata dal laboratorio che ci diceva che una ripresa era inutilizzabile per un problema sul negativo. Quando con Luca abbiamo visto il materiale eravamo radiosi: l'imperfezione tecnica, una velatura sul negativo, ci è sembrata sublime. Terminato il montaggio abbiamo richiesto esplicitamente al laboratorio di non correggere questo errore, così chimico e vero, tant’è che si vede tuttora nella versione definitiva del film nella scena in cui Elio attende Oliver mentre Sufjan Stevens canta Futile Devices.

Come si è svolto il montaggio della scena finale del film, ambientata in inverno al momento della Hanukkah? Avevate scelto in partenza di mantenere fissa sulla prima parte dei titoli di coda il primo piano di Elio che piange, oppure avevate anche altre ipotesi di chiusura?

Luca sapeva esattamente quello che voleva. Timothée ascoltava in cuffia il meraviglioso brano di Sufjan già sul set, Visions of Gideon: hanno girato quattro take con diverse sfumature di recitazione, poi si è trattato solo di sceglierne una e lavorare sul suono e sui titoli. A film già finito e dopo un paio di festival alcuni produttori proposero di rimuovere i titoli dall’inquadratura perché qualche spettatore vedendo gli end credits si alzava prima che il film fosse veramente finito. Ma a me sembravano perfetti lì, nel loro rapporto con Chalamet, la sua performance incredibile e il finale della storia.

Chiamami col tuo nome è stato amato dal pubblico anche per l’eccezionale colonna sonora, tra singoli in voga nei primi anni ’80, brani classici e alcune canzoni originali di Sufjan Stevens. Come si è svolta la collaborazione con Stevens? (È vero che sei tu il DJ della scena della festa?).

Sono io, in una delle migliori performance del film direi. Ci sono molti aneddoti divertenti su quella notte, mi hanno messo lì a tradimento ovviamente. Avevo la barba lunga e per Fernanda (Perez), amica da sempre e fantastica truccatrice del film, dovevo tagliarla. Nel minuscolo bagnetto del locale dove fu girata la scena, munito di un rasoio di plastica, mi sono rasato causandomi tagli paragonabili a The Big Shave di Scorsese. Sufjan Stevens è una scelta di Luca: un artista meraviglioso, che ho conosciuto poi al Sundance dove si è rivelato una persona speciale. Ha scritto per Chiamami col tuo nome due canzoni originali e la versione riarrangiata di un suo brano preesistente, Futile Devices.

Come avete scelto gli altri brani di repertorio che accompagnano il film?

Loredana Berté, Franco Battiato e Paris Latino sono scelte di Luca, così come F.R. David; io ho portato Marco Armani e un altro paio di canzoni. Ho anche proposto il riutilizzo, in termini extradiegetici, di commento, di brani di Ryūichi Sakamoto tratti dalla sua colonna sonora per Merry Christmas Mr. Lawrence di Nagisa Oshima, un film di cui Sakamoto era anche interprete e che amiamo moltissimo. C’è stato come sempre un lavoro di confronto e di verifica in grande armonia, con forte intesa e collaborazione.

È stato riportato che il primo montaggio di Chiamami col tuo nome durasse tre ore e venti, oltre un’ora in più del film come è arrivato nelle sale. Quali sequenze avete tolto e perché? Tu e Guadagnino avete mai discusso la possibilità di far uscire un extended cut?

Per Luca l'unico cut del film è quello che si è realizzato, il director's cut è quello del film che è uscito: inoltre Luca di carattere non è nostalgico. La stesura di tre ore era già soddisfacente, di superfluo c'erano forse dieci o quindici minuti ma c'erano gli estremi per precisare la scansione del tempo, la precisione espressiva del racconto e soprattutto il percorso sentimentale dei personaggi. Per fare questo abbiamo tagliato una trentina di minuti di scene anche molto belle. L'accuratezza del montaggio è un aspetto per me importante. Non si tratta di rifinire o pulire, ma di precisare. Quando vedo i film che ho montato credo di riconoscere a livello istintivo dove ci sono riuscito e dove no.

Parlaci delle scene che avete tagliato.

C'era una scena molto riuscita, ambientata nel giardino della villa, in cui Elio tentava di sedurre Oliver con l'intelligenza delle parole e dei sentimenti che caratterizza il suo personaggio. Il professor Perlman, il padre di Elio, li osservava a distanza. Luce, recitazione, montaggio – tutto funzionava benissimo ma mi sembrava complicasse inutilmente il percorso sentimentale dei personaggi, era forse ridondante. A Luca questa scena piaceva molto quindi quando gli ho proposto di tagliarla temevo avrebbe pensato fossi matto, invece ci abbiamo riflettuto un istante e ha subito approvato. Unendo le scene precedenti e successive il film era diventato più chiaro, emozionante. Poi c'era una scena intima fra i genitori che parlavano del rapporto tra Elio ed Oliver, e si capiva che avevano compreso la natura della relazione tra i due ragazzi.

È stato riportato che la prima persona estranea alla produzione a cui è stato mostrato il primo montaggio di Chiamami col tuo nome fu Bernardo Bertolucci. Che reazione ebbe e quali suggerimenti vi diede?

Luca era sempre felice di mostrare le prime stesure dei nostri film a Bernardo e a Clare, sua moglie e a sua volta regista. Chiamami col tuo nome sin da subito è stato circondato da un’aura di affetto e ammirazione da parte di chi lo vedeva. Nessuno di noi pensava che il film avrebbe incontrato in maniera così profonda ed emotiva il pubblico, ma sapevamo di aver fatto un buon lavoro. Al termine del montaggio mancavano ancora gli esterni invernali, girati a novembre e mixati a Parigi nei giorni appena dopo Natale. Poi Chiamami col tuo nome è andato al Sundance e da lì è cominciata l'avventura del film.

Pochi mesi dopo il completamento di Chiamami col tuo nome Luca Guadagnino era nuovamente sul set a girare il suo personalissimo remake di Suspiria di Dario Argento, un altro progetto che inseguiva da un quindicennio e che in un primo momento lo vedeva solo come produttore, con David Gordon Green alla regia e Isabelle Huppert nel cast. Come era nato e come si è sviluppato negli anni il progetto di un remake di Suspiria? Tu che sei stato il montatore sia di Guadagnino che di Dario Argento, hai avuto un qualche ruolo nell’intermediazione tra i due?

La mediazione sull’acquisto dei diritti è stata una mediazione produttiva. Mentre montavo La terza madre Luca rinnovava i diritti sul remake di Suspiria; La terza madre era il terzo capitolo della Trilogia delle madri di Argento dopo Suspiria e Inferno, quindi, in un certo senso, mi sento parte del meccanismo che ha portato al nostro nuovo Suspiria, ma in maniera indiretta.

Quali sono stati i presupposti produttivi che hanno portato alla realizzazione del film in collaborazione con gli Amazon Studios? In che momento dell’ideazione del Suspiria di

Luca Guadagnino è subentrata l’idea che Tilda Swinton dovesse recitare un triplo ruolo?

Non ricordo bene quando Amazon Studios ha fatto ingresso nel film: fortunatamente però i nostri producers di riferimento erano persone straordinarie e grandi amanti del cinema. Ricordo bene invece i primi make-up test di Tilda nei panni del professor Klemperer, un anno prima di girare: ero stupefatto. Una notte sul set a Berlino ho incontrato questo professore e ho parlato con lui: Tilda non ha mollato il personaggio un istante e la conversazione è stata molto interessante!

Oltre al film di Dario Argento, dal quale poi vi siete distaccati, quali erano i vostri riferimenti per il nuovo Suspiria? Molti hanno pensato al Fassbinder degli anni del terrorismo…

Il Nuovo Cinema Tedesco degli anni ’70 era ovviamente di riferimento, e quindi anche la temperie storico-culturale con cui era in strettissima comunicazione. Luca infatti non voleva fare un film lontano da un contesto storico-culturale come quello di Dario, che è una favola astratta e senza tempo. La Storia ha una grande parte nella trama del suo Suspiria, a cominciare dal riferimento esplicito agli ultimi atti della vicenda della Banda Baader-Meinhof. La stessa idea di una compagnia di danza gestita da streghe come entità anarcoide che attraversa la Storia è molto in contatto con quell’immaginario.

Come avete montato i primi minuti del film, tra la seduta di psicoterapia di Patricia, l’arrivo a Berlino di Susie Bannon e le enigmatiche immagini di una comunità mennonita nella provincia americana?

Il montaggio di Suspiria è stato complesso, la prima stesura durava quattro ore e c’è stato un continuo processo di elaborazione e riposizionamento delle scene. Il film inizialmente non apriva con la sequenza di Patricia e Kemperer, la prima scena era quella della colazione delle streghe che invece adesso arriva circa venti minuti dopo. La stessa sequenza di Patricia in seduta da Kemplerer è stata pensata e ripensata, con alcuni dialoghi completamente riscritti: tutto doveva essere estremamente significativo e pregnante.

Come si è svolto il montaggio delle scene di danza, soprattutto della scena in cui i passi di danza di Susie Bannon si alternano con la morte di Olga?

La morte di Olga è stata una sequenza entusiasmante e molto laboriosa, ne sono estremamente fiero. In ripresa non c’era una vera e propria definizione del rapporto dinamico fra il sopra (l'audizione di Susie) e il sotto (lo smembramento di Olga nella stanza degli specchi): i rapporti tra i loro gesti sono parallelismi energetici trovati in montaggio. Sono occorse tre o quattro settimane per montare quei due minuti e mezzo del film! Una costruzione aggressiva e millimetrica, compreso il rapporto con il suono e la musica di Thom, che è arrivata a scena già parzialmente montata (le prime stesure le ho realizzate senza suono, come se fossero parte di un film muto).

In aereo al lavoro sul montaggio di Suspiria

In aereo al lavoro sul montaggio di Suspiria

Come avete lavorato sulla sequenza della messa in scena del balletto Volk?

Per montare la scena avevo bisogno di capire la dinamica e il rapporto effettivo che nel film c’è tra la magia e il gesto fisico della danza. Avevo come riferimento forte il cinema di Bob Fosse – All That Jazz, qualcosa di Cabaret – e volevo che ogni gesto avesse una sua intelligenza, una sua energia, una sua sacralità. L'obiettivo era anche quello di mettere lo spettatore nei panni del pubblico che in scena assiste alla performance: volevamo creasse disagio e sensazioni forti.

Della sequenza di Volk è particolarmente curato l’aspetto sonoro. Te ne sei occupato personalmente?

Alla performance di Volk ho dedicato tantissimo tempo, volevo che tutto fosse al suo posto. Con Davide Favargiotti e Frank Kruse al suono abbiamo fatto in modo che tutto fosse preciso e potenziato: ogni fiato, ogni passo di danza che senti è stato ri-registrato, rinforzato, re-mixato, in modo che arrivasse tutto alla massima intensità. Poi è arrivata la musica di Thom Yorke e questa, nel mixage, ha fatto esplodere la scena: particolarmente cruciale è il duello tra Susie e Sara quando quest'ultima riemerge dai sotterranei, morta-non-morta, dopo aver subito l'attacco delle streghe.

Come si è svolto invece il montaggio della scena del sabba, vero e proprio climax del film? Che effetto avete impiegato nell’ultima parte della sequenza, quando tutto sembra accelerato?

La scena del sabba è quasi un film nel film. Tilda è impegnata in tre ruoli: il mio momento preferito è quando Helena Markos uccide Madame Blanc mentre la sorpresa più bella è stata quando Luca mi ha spiegato che voleva che la rivelazione finale di Susie fosse un evento quasi positivo e luminoso. L’effetto di cui parli è stato realizzato in ripresa, mentre il viraggio in rosso è stata una scelta di montaggio.

Come è stato possibile realizzare le sovrapposizioni, nelle inquadrature in cui comparivano sia Madame Blanc che Helena Markos?

Sul set c’era una stand-in a fare da “quinta” e permettere che Tilda potesse rivestire entrambi i panni.

Quali scene sono state eliminate dal montaggio di Suspiria?

Ci sono stati molti tagli. Una scena meravigliosa mostrava i due poliziotti tornare da Kemplerer dopo il sabba, Luca ha voluto tagliarla per compattare il racconto.

A cosa voleva alludere l’enigmatica e solare scena finale, che sembra essere ambientata ai giorni nostri?

Il fatto che, nascosto nella pietra, nel cemento delle mura della dacia ci sia ancora il cuore tracciato da Klemperer racconta forse che la memoria, in questo caso la memoria amorosa, trionfa e supera la barriera del tempo. Considerando che nel finale del film Kemplerer è stato liberato da Susie dai suoi tormenti di colpa per la morte di Anke, sua moglie, dalla sua ossessione per il passato, fa assumere al finale un ulteriore significato.

Come scena di mid-credit, vediamo una breve inquadratura di Susie che, con un gesto della mano, sembra cancellare anche negli spettatori la memoria di quanto è successo…

Un'idea di montaggio che ci divertiva e ci è sembrata narrativamente significativa. Quell'inquadratura veniva da una sequenza tagliata di Susie.

La colonna sonora di Suspiria è stata composta da Thom Yorke dei Radiohead, alla sua prima esperienza cinematografica. Come era nato il suo coinvolgimento nel film e quale interscambio avete avuto con lui al montaggio e al momento della registrazione definitiva della colonna sonora? Come si è svolto poi il montaggio delle musiche?

Thom ha collaborato al film con creatività, disponibilità e umiltà. È un artista sincero, amichevole e aperto al dialogo. Era libero di fare ciò che voleva, perché questo è lo spirito di Luca, ma è stato sempre interessato a conoscere i nostri feedback per investigare approfonditamente il rapporto della sua musica con le immagini del film. Ho avuto la grande fortuna di lavorare a stretto contatto con lui e collaborare al montaggio delle musiche. Come tutti i grandi artisti non ha mai avuto paura di condividere il suo lavoro mettendolo a disposizione del film. Non scorderò mai i giorni passati a Oxford, da lui, per lavorare insieme. Ero accompagnato da mia figlia Emma.

Al Festival di Venezia del 2020, sono stati presentati due titoli di Guadagnino: The Shoemaker of Dreams, sulla vita e l’eredità di Salvatore Ferragamo, e il corto Fiori fiori fiori, girato nei luoghi nativi di Guadagnino in Sicilia, a ridosso del lockdown. The Shoemaker of Dreams sembra un documentario piuttosto articolato, le cui riprese sono avvenute nell’arco di diversi anni: come era nato il progetto e tu come ne hai curato il montaggio?

Shoemaker of Dreams è un film sul quale ho lavorato a lungo. Per raccontare questa storia interessante e viva, così ricca di eventi e curiosamente poco nota, volevamo evitare le trappole del documentario tradizionale. Alcuni temi emergevano con forza, su tutti il rapporto di Salvatore Ferragamo con la nascita del cinema a Hollywood e Santa Barbara: Ferragamo arrivò lì proprio negli anni Dieci, quando il cinema veniva inventato anche grazie alle iniezioni seminali e le collaborazioni di artisti europei. Salvatore realizzò le scarpe per decine di film memorabili, collaborando fra gli altri con Griffith e De Mille. Realizzò le calzature per i più grandi divi del momento, di cui diventò amico. È stato divertente ricorrere a mille invenzioni per vivacizzare con coerenza ed energia narrativa i materiali biografici del film. La colonna sonora è stata scelta con cura e ricerca di significato.

Come è nato invece Fiori fiori fiori? Davvero è stato girato con smartphone?

Luca ha girato il film durante il lockdown del 2020 appena è stato possibile spostarsi per l'Italia. Armato di smartphone e tablet ha ri-visitato con sguardo emozionato alcuni suoi luoghi della Sicilia e mi ha mandato il girato, che ho montato in autonomia a Roma: Luca ci si è riconosciuto e il piccolo film era pronto.

Walter Fasano e Luca Guadagnino

Walter Fasano e Luca Guadagnino

Di recente sei stato il regista, lo sceneggiatore e il montatore del documentario Pino, dedicato alla figura dell’artista pugliese Pino Pascali, morto nel 1968 a poco più di trent’anni quand’era all’apice del successo. Innanzitutto, come è nato il progetto?

Si tratta di un progetto su commissione propostomi dal Museo Pascali di Polignano a Mare in occasione dei cinquant’anni dalla morte di Pino. Per celebrarne la memoria il Museo aveva acquistato una sua opera, i meravigliosi Cinque bachi da setola e un bozzolo: mi hanno chiesto di documentare questa acquisizione, ci ho riflettuto una notte e ho rilanciato proponendo un film più articolato. Il Presidente del Museo Giuseppe Teofilo è egli stesso un artista e si è subito appassionato all'idea.

Di Pino mi ha molto colpito la concezione di partenza: si tratta di un documentario composto per lo più da fotografie statiche, con poche immagini in movimento, per lo più zoom o filmati d’epoca. Come ti sei documentato sulla figura e sull’opera di Pascali e come sei arrivato a scegliere questa forma? Quali sono state le fonti del testo che accompagna in voice-over le immagini?

Sono barese come Pino, e al primo anno di liceo una professoressa decise di portare la classe alla Pinacoteca Provinciale che ospitava alcune sue opere. Mi piace pensare che in quell'occasione sia nata una connessione con la sua energia vitale e creativa, legata all’amore per la luce bianca dell’Adriatico, alla terra, al mare. Con l’aiuto del Museo, che studia e documenta l'arte e la vita di Pascali da molti anni, ho riallacciato le fila di un discorso iniziato allora. Ho studiato, ho letto tanto e incontrato chi lo aveva conosciuto, a partire dal leggendario Fabio Sargentini le cui intuizioni hanno contribuito a reinventare i modi dell'arte e della sua esposizione e ispirato i giovani artisti degli anni ’60, Pascali per primo, con cui creò un'irripetibile sinergia.

Al termine dei titoli di coda di Pino c’è una lunga lista di nomi introdotta dal titolo letture / visioni / incontri: fra i tanti spiccano Chris Marker, Alain Resnais, Arthur Rimbaud, Alberto Arbasino, John Cage, Maurizio Calvesi, Roland Barthes, Marcel Duchamp, Umberto Eco, Mircea Eliade, Levi-Strauss, Eugenio Montale e Filippo Tommaso Marinetti. Si riferiscono a letture che hanno fatto da “retroterra culturale” alle opere di Pascali?

Sì, accompagnati da altri incontri anche più eccentrici che hanno arricchito la realizzazione del film, ispirandone il clima. In alcuni casi si tratta di letture o incontri importanti per lo stesso Pascali come Opera aperta di Umberto Eco, il saggio di estetica che Pino aveva fatto profondamente suo: nel film c'è anche una foto della copia che Pascali stesso aveva annotato. Grazie a queste “letture altre” si è allargato l’orizzonte del film, in primis con i versi di Rimbaud e l'idea stessa di un film fotografico, presa in prestito da La Jetée di Chris Marker. Il fuori campo e certe rarefazioni sono di ispirazione resnaisiana. Le visioni psichedeliche in bianco di Henri Michaux, Montale, e la musica.

Al pari di Bertolucci on Bertolucci, anche Pino è caratterizzato nei suoi voice-over da un deciso multilinguismo, con voci in italiano, in inglese e in francese che si alternano. Come hai scritto il voice over di Pino? Fra le tue quattro voci narranti – Suzanne Vega, Alma Jodorowsky, Monica Guerritore e Michele Riondino – come hai ripartito le parti di testo?

Il montaggio di Pino, Walter Fasano (2020)

Il montaggio di Pino, Walter Fasano (2020)

Dopo lo studio ho cominciato a scrivere, lasciando a questi materiali eterogenei la possibilità di connettersi liberamente. Ne è venuto fuori un testo di un'ottantina di pagine, che poi ho portato a venticinque. Contemporaneamente ho cominciato a mettere insieme le fotografie originali di Pino Musi e la musica di Nathalie Tanner e testo e immagini hanno iniziato lentamente a dialogare. La scelta delle voci è avvenuta con semplicità. Ho sempre pensato al narratore in inglese, poi con la poesia di Rimbaud è arrivato il francese, e con il contratto di cessione dei Bachi ed Eugenio Montale l'italiano. Alma Jodorowsky, Suzanne Vega, Monica Guerritore hanno reso vivi i testi intuendo immediatamente il carattere del film. Michele Riondino è stato il nostro Pino Pascali. Ho sempre pensato di fare un film di fantascienza, un po' come La Jetée, immerso in una dimensione di tempo indefinita. Nel nostro caso il tunnel del Muro Torto di Roma, il sottopasso dove Pino perse la vita in motocicletta, diventa una soglia, un luogo di transito che mette in comunicazione diversi luoghi e tempi di vita di Pino, nonché della narrazione del film.

Pino è stato presentato allo scorso Festival di Torino, vincendo la sezione Italiana.doc, venendo poi selezionato in altri festival in Italia e all’estero. Come sarà distribuito al grande pubblico?

Il film ha il grande onore di essere in streaming su MUBI dal 3 ottobre in tutto il mondo, un risultato straordinario per un film così piccolo e libero. E poi gireremo gallerie d'arte e festival internazionali per ricordare e celebrare l'arte di Pino Pascali.

 

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