L’importanza di avere un sogno e di poterlo condividere. Conversazione con Fabio Nunziata sulla collaborazione con Abel Ferrara (prima parte)

Fabio Nunziata (Cosenza, 1965) è un montatore italiano. Diplomatosi in montaggio presso il Centro Sperimentale di Cinematografia nel 1987, dopo alcune prime esperienze come montatore, nel 1996 presenta al Festival di Torino il lungometraggio Il caricatore, co-diretto da Nunziata con Eugenio Cappuccio e Massimo Gaudioso, per il quale viene candidato assieme ai colleghi al Nastro d’argento al miglior regista esordiente. Dopo aver diretto assieme a Cappuccio e Gaudioso anche La vita è una sola, si dedica esclusivamente al montaggio. Nel 2004 viene candidato al Nastro d’argento per il suo lavoro ne Il ritorno di Cagliostro di Ciprì e Maresco. Ha continuato a collaborare come montatore con Cappuccio (Uno su Due, Se sei così) e con Gaudioso (Un paese quasi perfetto). La sua filmografia si distingue in seguito per una lunga collaborazione con Abel Ferrara: per il regista newyorkese Nunziata ha curato infatti il montaggio di numerosi film: Mary (2005), premiato con il Leone d’Argento al Festival di Venezia, i controversi Go Go Tales (2007) e Pasolini (2014), i documentari Napoli Napoli Napoli (2009), Alive in France (2017), Piazza Vittorio (2017) e The Projectionist (2019). Nunziata ha montato anche gli ultimi due film di Ferrara, Tommaso e Siberia, dittico con protagonista Willem Dafoe, presentati l’uno al Festival di Cannes del 2019 e l’altro al Festival di Berlino del 2020.

Si ringrazia Fabio Lovino per i due ritratti di Fabio Nunziata

 PRIMA PARTE
(per leggere poi la seconda parte)

Come ti sei avvicinato al mondo del cinema e quale è stata la tua formazione?

A 15 anni mi sono innamorato del cinema ‒ i film mi provocavano emozioni profonde e per capire il segreto di questa magia ho iniziato a leggere tutti i testi sulla pratica e sulla teoria che ho trovato nelle librerie della mia città, e a fare qualche primo esperimento in Super8. Finito il liceo sono venuto a Roma e mi sono iscritto a Lettere, e ho frequentato soprattutto i corsi di cinema e spettacolo per due anni, in attesa del concorso per il Centro Sperimentale di Cinematografia. Ho scelto di tentare il concorso per entrare al Centro per il corso di montaggio perché su questo aspetto del cinema avevo letto molto, e soprattutto perché dalle informazioni che avevo raccolto veniva segnalato come uno dei corsi più interessanti della scuola, grazie alla presenza di una grande professionista e insegnante, Roberto Perpignani. L’esperienza del CSC è stata per me fondamentale.

Quali sono stati i primi film che hai montato?

Il primo fu l’opera prima di un ex allievo spagnolo del Centro. Il secondo e il terzo furono poi anche all’origine della mia esperienza registica. Nel 1990 Iaia Forte ‒ con cui avevo legato molto durante il triennio al Centro ‒ credendo molto nelle capacità del suo amico di lunga data Pappi Corsicato, quasi lo costrinse a girare un cortometraggio, e a questo scopo gli mise intorno un gruppo di persone di cui facevo parte anche io. Libera, questo il titolo, quando i cortometraggi erano ancora oggetti non meglio identificati, ricevette reazioni molto positive e convinse Pappi a girare altri due lavori, che, insieme al primo e sotto lo stesso titolo, vennero uniti in un unico film. Fu per me un’esperienza particolarmente felice dal punto di vista umano e creativo ‒ proiettato con successo al Festival Berlino, il film uscì in sala con buoni incassi. Per questo motivo De Laurentiis decise di produrre il secondo film di Pappi, I buchi neri.

Fabio Nunziata, con Massimo Gaudioso ed Eugenio Cappuccio sul set del loro film Il caricatore (1996)

Fabio Nunziata, con Massimo Gaudioso ed Eugenio Cappuccio sul set del loro film Il caricatore (1996)

Come è nata invece la tua breve parentesi registica?

Il confronto con il sistema industriale fu duro e complicato, e mi convinse della necessità per me di tentare di creare una strada alternativa in cui poter conservare la libertà creativa e produttiva della prima esperienza. Non volevo fare il regista, volevo fare dei film che mi piacessero e creare un gruppo con cui poterli ideare e realizzare. Così nel 1993, quando in seguito a Mani Pulite si bloccarono tutti i finanziamenti e ne scaturì una nuova, ennesima, crisi nel cinema italiano, fu quasi naturale l’incontro con Eugenio Cappuccio e Massimo Gaudioso, due persone speciali che avevo conosciuto in altre esperienze di lavoro, da cui ho imparato molto e con i quali potevo condividere questa mia aspirazione. Fondammo idealmente un gruppo creativo intitolato a Tanio Boccia, regista di serie D degli anni ’60, famoso per la sua capacità di arrangiarsi, e per qualche anno abbiamo realizzato corti e film. Il caricatore in particolare riproponeva la strada produttiva già percorsa con Libera, e per me fu l’occasione di portare il montaggio fin nella scrittura e nella regia. Nato come cortometraggio, autofinanziato (spendemmo circa 6000 euro di oggi per arrivare alla copia 35mm con i sottotitoli) si trovò nel pieno di una nuova ondata di attenzione verso questa forma di cinema, con il fiorire e moltiplicarsi di festival di corti in ogni angolo del paese. Il nostro film circolò in molti di questi vincendo diversi premi, a partire da Arcipelago, festival romano organizzato da Fabio Bo e Stefano Martina, che fu precursore di quella stagione, fino a Locarno, dove vinse il premio della giuria e quello del pubblico. A differenza di Libera, il passo successivo verso il lungometraggio fu realizzato riaprendo la storia e riprendendola da dove l’avevamo interrotta. Il caricatore parla dell’importanza di avere un sogno e di poterlo condividere con gli altri, e ancora oggi è il film che più mi rappresenta, per il tema, per il linguaggio e per il modo in cui è stato realizzato. Credo che il cinema sia un lavoro di gruppo ‒ per fare un film sono necessarie talmente tante competenze che è impossibile trovarle in un’unica persona. La bravura di un regista a mio avviso sta anche nella capacità di selezionare le persone migliori per ognuna di queste competenze, di trarne il massimo e di armonizzarle al fine di esprimere al meglio la propria visione.

Nel 2002 venne presentato al Festival del Cinema di Venezia Aprimi il cuore, controverso dramma erotico girato in un innovativo digitale; il film era scritto, diretto e interpretato da Giada Colagrande, che di lì a pochi anni avrebbe sposato Willem Defoe entrando a far parte dell’entourage di Abel Ferrara. Come avevi conosciuto la Colagrande e cosa ricordi del montaggio di Aprimi il cuore? Era il primo film che montavi in digitale?

Ho conosciuto Giada appena arrivata a Roma, e ho provato immediatamente per lei stima e simpatia. Così quando mi ha chiamato perché era in difficoltà con il montaggio del film, non ho esitato ad accorrere in suo aiuto. Aprimi il cuore era un film coraggioso e interessante, realizzato con pochissimi mezzi, non semplice da costruire al montaggio soprattutto per un esordiente. Si trattava più che altro di trovare nelle scene girate le parti più utili al racconto e rimetterle insieme valorizzando quello stile un po’ sospeso, poetico, che Giada aveva voluto dare a una storia così dura e scandalosa. Abbiamo montato il film a casa sua su un portatile, in un clima di collaborazione particolarmente positivo, e ancora oggi siamo molto legati. Ho conosciuto Willem quando ha iniziato a frequentarla, prima di incontrarlo ancora nel lavoro con Ferrara. Il montaggio digitale è arrivato in Italia all’inizio degli anni ’90, il mio primo film montato in digitale avrebbe dovuto essere Il caricatore, ma decidemmo di montare in pellicola Super16 mm perché ci sembrava più adatto alla storia ‒ montammo in digitale solo una sequenza del film che era girata in video, quella fu la mia prima volta. Da lì in poi ho montato tutti i film in digitale. Fu Giada a insegnarmi i rudimenti di Final Cut, programma di montaggio digitale allora considerato non professionale a cui eravamo costretti dalle ristrettezze del budget.

Il primo film di Abel Ferrara che tu hai montato è stato Mary, vincitore del Leone d’Argento a Venezia nel 2005. Innanzitutto, come sei stato coinvolto nel progetto? Quanto conoscevi i suoi film precedenti e cosa ti aveva colpito in particolare?

Enzo Meniconi, esperto montatore della generazione precedente alla mia e persona di grande umanità, abitava nella mia stessa strada e mi aveva preso in simpatia – mi vedeva in giro con mio figlio piccolo e si preoccupava di procurarmi lavoro. Un giorno mi disse ridacchiando che c’era Ferrara a Roma che stava cercando un montatore, che ne aveva già licenziati quattro e che avrei dovuto propormi. Gli dissi che era impossibile perché non parlavo inglese, e soprattutto che ero appena uscito da un’esperienza con un regista complicato e che non volevo ripetere a breve l'esperienza. Ma in quel momento ebbi la netta impressione che da qualche parte questa cosa complicata mi sarebbe arrivata. Infatti dopo qualche giorno Massimo Cortesi, produttore esecutivo del film, su suggerimento di Jacopo Quadri ‒ montatore eccezionale, compagno di corso al Centro e amico fraterno ‒ mi chiamò per propormi di incontrare Abel. Gli feci presente che dal momento che non parlavo inglese non mi sembrava il caso, ma lui mi disse che per Abel non era importante, così accettai l’invito, quasi più per una forma di educazione, ma pensando che non avrei mai montato quel film.

Cosa ricordi del primo incontro con Abel Ferrara?

Ho un ricordo particolarmente divertente del primo incontro con Abel. Pioveva moltissimo quel giorno, e infilandomi di corsa nella mia auto per evitare di bagnarmi avevo sbattuto la testa contro lo spigolo dello sportello, procurandomi una ferita sulla fronte. Per cui tra mille maledizioni arrivai all’incontro in ritardo e con un vistoso cerotto macchiato di sangue sulla fronte. Mi sembrava che la situazione fosse già partita nel peggiore dei modi, ma quando Abel entrò nella stanza feci fatica a trattenermi dal ridere: aveva un braccio appeso al collo con una lunga benda bianca – sembravamo due feriti di guerra in un ospedale da campo. Il buon umore mi passò subito perché era furibondo, si lamentava molto del fatto che non riusciva a trovare un montatore. Timidamente, con l’aiuto della traduzione di Cortesi, anche per tentare di fare un po’ di conversazione gli chiesi come mai, e se stava cercando un tipo di montaggio particolare – lui mi fulminò con lo sguardo e mi chiese se avevo visto i suoi film; risposi di sì, in parte mentendo perché ai tempi conoscevo ancora poco della sua filmografia. Alla fine decise comunque di mettermi alla prova. Non potrò mai dimenticare la notte che mi convocò a casa sua e mi mostrò materiali del film messi in fila: la struttura del racconto era un casino, ma il materiale era meraviglioso e me ne innamorai immediatamente. Whitaker era un protagonista profondo e potente, la Binoche intensa e bellissima, e poi Modine, Marion Cotillard, Heather Graham, tutti attori che avevo visto nei film di Hollywood. Costanza Coldagelli, assistente di Ferrara, era seduta al mio fianco e traduceva per me i dialoghi. L’unica cosa che non capivo bene era cosa potevo entrarci io con tutto questo; ma poi nel film vidi il protagonista vivere un’esperienza molto simile a qualcosa che avevo appena vissuto io e capii che quel film in qualche modo mi riguardava, e potevo intuirne profondamente il senso. Abel mi diede una scena da montare e fu molto soddisfatto del risultato. Da quel momento è iniziato tra noi un rapporto di collaborazione sempre più stretto che è andato avanti per quindici anni.

Mary è una riflessione sulla fede e sulla conversione esposta attraverso le storie di diversi personaggi in crisi di fede, fra cui un’attrice (Juliette Binoche) che ha appena finito di interpretare il ruolo della Maddalena in un film hollywoodiano e che si reca in Palestina alla ricerca della verità, e un conduttore televisivo di un programma sulla vita di Gesù (Forrest Whitaker), segretamente in crisi di fede. Come avete raccordato, in fase di montaggio, queste storie parallele?

Vorrei dire prima di tutto che a mio avviso l’intera filmografia di Ferrara può essere ricondotta a un unico tema, body and soul, o più precisamente body vs. soul. Ogni suo film indaga, nelle sue infinite manifestazioni, quella tensione tra la parte animale (violenza, sesso, tradimenti, dipendenze ecc.) e quella che aspira a una elevazione spirituale e all’assoluto che convivono nell’animo umano. Il montaggio di Mary è stato particolarmente complicato perché se da una parte lo scheletro del racconto era chiaro e semplice, dall’altra non bastava a dare al film la profondità di cui aveva bisogno. Per questo motivo Abel aveva aggiunto durante le riprese alcune scene soprattutto del film su Gesù girato dal personaggio interpretato da Modine e altri materiali liberi con la Binoche non previsti in sceneggiatura. Poi, durante il montaggio, aveva aggiunto altri materiali di repertorio che riteneva importanti per la storia. Trovammo subito un’intesa speciale nel lavoro, ma poco dopo i produttori, allarmati dal caos e dai licenziamenti, non convinti dalle garanzie di Abel sul mio conto, mandarono a darci una mano un altro montatore, Langdon Page. Era molto in gamba, ci dividemmo il lavoro e ci diede una mano per qualche settimana – fece delle belle cose, alcune sono rimaste nel film, come la sequenza di Ellen Page sui vangeli apocrifi o l'ultima scena. Ma, come dicevo, non era semplice trovare la struttura, così dopo un po’ ci abbandonò anche lui, e il film sembrava destinato a non trovare una forma compiuta. Ma da quel momento con Abel ci rimettemmo a lavorare con ancora più energia e pian piano ogni tassello sembrò trovare il posto giusto, fino a comporre quella che oggi è la versione definitiva. Il film è costruito intorno al personaggio di Ted, Marie e Tony diventano quasi la materializzazione delle due forze diverse che agiscono dentro di lui, la fede istintiva e l'eresia combattente. Parla della necessità dell'uomo moderno di trovare un rapporto con la religione, intesa come sovrannaturale. Attraverso il suo protagonista pone una domanda: cosa succede anche ai meno religiosi tra noi quando la vita ci pone di fronte a un evento gravissimo che drammaticamente cambia tutto, e né noi, né nessun dottore, nessuna macchina possono controllare? Ted troverà la sua risposta, nel bellissimo monologo finale in chiesa – Whitaker era in uno stato di grazia, vincerà l'oscar l'anno dopo. Mi veniva da pensare che se nel passato Cristo si era materializzato vivo e sanguinante davanti al protagonista di Ferrara, in questa sequenza rimane muto e misterioso, chiuso nel suo simbolo.  

Quali furono le sequenze di Mary più complicate da montare?

Una parte del montaggio particolarmente impegnativa ma molto stimolante erano le trasmissioni televisive del personaggio di Ted: avevano girato per intero degli incontri con dei veri esperti di teologia, e nonostante Whitaker avesse una traccia per le domande su cui far muovere il suo personaggio, gli incontri toccavano molteplici aspetti, alcuni duravano più di un’ora. Bisognava trovare in quei materiali quei momenti, quei temi capaci di creare, per analogia o per contrasto, una corrispondenza con lo stato d’animo del protagonista e con l’evoluzione del suo personaggio. Era emozionante trovare di volta in volta questi incastri, in particolare mi torna in mente la sequenza in cui il monaco benedettino parla della madness of God. Montavamo vicino al Vaticano, ne sentivamo in qualche modo la presenza perché il film era sempre a rischio di eresia. Per una strana combinazione poi, durante il montaggio, ci furono la morte di Wojtyla e l’elezione di Ratzinger, quindi vivemmo da vicino quella ondata di emozione che riguardava non solo Roma ma un po’ tutto il mondo cattolico, e credo che in qualche modo abbia anche influenzato il nostro lavoro.

Come si svolgevano le giornate in sala di montaggio?

Ai tempi facevamo ancora orari “newyorkesi”, iniziavo a montare da solo al pomeriggio, Abel arrivava verso sera e finivamo insieme a notte fonda. Ricordo in particolare una notte passata a montare e rimontare una scena del dialogo tra i discepoli, finché Abel non fu contento del risultato. Quando aprimmo le tende ci accorgemmo che era l’alba, e uscimmo insieme per le strade di Trastevere… c’eravamo solo noi e i gabbiani. Lui, per ringraziarmi dell’impegno, mentre stravolto trascinavo un piede dietro l’altro, mi accompagnò suonando alla chitarra canzoni di Bob Dylan fino al forno più vicino dove mangiammo pane caldo, in attesa che aprisse il bar. Della parte scritta del film abbiamo tagliato solo una scena – nella storia originale Gretchen e Marie condividevano lo stesso appartamento, e, in una scena molto suggestiva, attraverso una scala interna Ted entrava di nascosto nella stanza di Marie e, come a cercare un contatto, ne sfiorava gli oggetti i vestiti. Ma questa idea della coabitazione sembrava una forzatura, e poi questo contatto arrivava troppo presto. Ted doveva viverla ancora come qualcosa di lontano, che cresceva soprattutto dentro di lui; quindi tagliammo la scena, e di quella conservammo solo l’inquadratura di una foto delle due amiche insieme, la riquadrammo e la inserimmo nella scena come se fosse nella stanza di Gretchen.

Come ti sei trovato a collaborare con Ferrara? Quali elementi del suo team hai conosciuto già a quella prima collaborazione con lui?

Ferrara è un vero maestro del linguaggio visivo e del montaggio, tra le tante cose che ho imparato da lui c’è l’idea di non lasciarsi condizionare dal senso apparente del materiale, ma di forzarlo, reinventarlo e piegarlo al significato e all’emozione che si vuole raggiungere. Sono tante le persone di quell’esperienza che ricordo con piacere e riconoscenza – innanzitutto Jacopo Lo Faro, ai tempi assistente di Abel e delegato al suo contatto con il mondo circostante; l’organizzatore Riccardo Neri, che mi mise nelle migliori condizioni per fare il mio lavoro; Emily Greene, l’assistente al montaggio, americana preziosa per i suoi feedback e per il superamento dei miei problemi dovuti alla lingua; Francis Kuipers, autore di quelle musiche che amavo così tanto al punto che Abel più volte aveva dovuto fermarmi per evitare che ne facessi un uso fuori misura; le giornate passate con Claudio Marani in uno studio di Prati a ricostruire il suono di New York, e Chris David, il missatore che con la sua sensibilità ed esperienza portò al massimo le possibilità espressive del suono; Roberto De Nigris, il finanziatore del film, per la sua gentilezza, per il rispetto e il continuo incoraggiamento verso il film e il nostro lavoro. Ricordo anche la forte emozione che provai nel vedere il film in Sala Grande a Venezia, il lunghissimo applauso alla fine della proiezione, poi il Leone d'argento e altri tre premi secondari che aggiunsero un'altra nota positiva a quella che ancora considero una delle esperienze più belle e difficili della mia vita sotto il profilo umano e creativo.

Come nacque invece il tuo coinvolgimento in Go Go Tales?

Fu con estrema gioia e direi gratitudine che qualche tempo dopo accolsi la telefonata di un produttore che mi chiedeva per conto di Ferrara se ero disponibile ad accompagnarlo nella sua nuova impresa italiana, Go Go Tales. A differenza di quello che si può pensare guardando i suoi film, Abel nella vita privata è dotato anche di uno straordinario e personalissimo senso dell’ironia e soprattutto di autoironia, ed è sempre interessante e divertente ascoltare i suoi racconti. Ce n’è uno in particolare riguardo a Go Go Tales che mi viene in mente. Mi raccontò che lui e Jarmusch erano in giro per New York quando incontrarono Scorsese, per il quale entrambi provano un estremo rispetto e un affetto speciale, lo considerano un fratello maggiore in tutti i sensi. Scorsese chiese loro cosa stavano facendo: Jarmusch raccontò del suo nuovo progetto; poi toccò ad Abel, il quale disse che voleva girare una commedia. A quella notizia Scorsese era scoppiato in una risata fragorosa, a lungo, e non riusciva a smettere di ridere, quasi fino a rimanerne soffocato...

Cosa cambiò nel tuo lavoro da Mary a Go Go Tales?

La sfida principale di quel film erano i tempi ‒ Massimo Gatti (finanziatore unico del film con quattro milioni di euro, che alla fine arrivarono quasi a cinque) aveva posto un’unica condizione: il film doveva essere pronto per Cannes. Il locale in cui si svolgeva la vicenda venne costruito a Cinecittà nel tempo record di tre settimane, le riprese iniziarono a dicembre e durarono per cinque settimane, quindi avevamo circa quattro mesi di tempo, tra montaggio e post-produzione, per arrivare alla copia finita – diciamo non proprio un tempo comodo. A partire da quel film ho sempre iniziato a lavorare per Abel dal primo giorno di riprese; in quel caso avevamo le sale di montaggio vicino ai teatri di posa, quindi facevo la spola tra il computer e il set.

Go Go Tales (Abel Ferrara 2008), manifesto

Go Go Tales (Abel Ferrara 2008), manifesto

Com’era il set di Go Go Tales?

Go Go Tales mi sembra uno dei film più personali di Ferrara: un uomo con una forte dipendenza ha il sogno di far sopravvivere un vecchio modo di fare spettacolo reinventandolo con un po’di poesia, per se stesso e per tutti quelli che lavorano insieme a lui. Sul set si faceva fatica a distinguere dove finiva la realtà e iniziava il film, dove finiva Abel Ferrara e iniziava Ray Ruby. Il circo Ferrara era al massimo della sua espressione: per assicurarsi una credibilità del locale di lap-dance  aveva fatto venire da New York per i ruoli secondari i suoi amici come già in altri film – il barista, il buttafuori e il corpulento e simpaticissimo Frankie Cee, che aveva un ristorante a Little Italy, e Anita Pallenberg nel ruolo della cassiera – poi una sarabanda di attori, attrici, vere spogliarelliste e finte ballerine, nonché i componenti di una troupe molto numerosa, tutti concentrati per cinque settimane nello stesso luogo, sotto le luci emozionanti di Fabio Cianchetti. Era una situazione veramente curiosa, molto divertente. C’era Willem naturalmente, che ai tempi già aveva con Abel una intesa stretta e intensa; Modine, simpatico e intelligente; l’incontenibile Sylvia Miles, Burt Young, che dopo qualche giorno era scappato via turbato da quella confusione, e soprattutto Bob Hoskins, con quel suo modo di usare la voce, che è stato uno dei migliori attori con cui mi sia mai capitato di lavorare. C'era di nuovo Stefania Rocca, c'era Asia Argento che mi sembrava così diversa dal suo personaggio pubblico, e un giovanissimo e sperduto Scamarcio. Stare sul set mi diede per la prima volta l’occasione di vedere Ferrara in azione durante le riprese, e capire meglio come riesce a ottenere quelle immagini così particolari, che rendono subito riconoscibili i suoi film. Abel gira i suoi film sempre in tempi record, non per problemi di budget, ma perché secondo lui dopo quattro, cinque settimane ha girato quello che doveva girare e non serve altro tempo. Durante questo breve periodo però la troupe è sottoposta a una pressione molto forte – Abel gira tutto a partire dalle prove e raramente fa un ciak uguale all'altro, ma con sapienza usa sempre due macchine da presa contemporaneamente per coprire in poche riprese diversi angolazioni della messa in scena, cerca e raccoglie molto intensamente il più possibile, lasciando cambiamenti e

variazioni che poi affronta con grande libertà anche nel montaggio. In Go Go Tales avevamo una sceneggiatura più classica con una storia precisa, il problema nel montaggio era soprattutto la contemporaneità delle azioni in un unico luogo. Di solito è normale che le strutture parallele del racconto immaginate sulla carta abbiano bisogno di essere più o meno ripensate al montaggio quando il racconto diventa per immagini. A volte abbiamo forzato la struttura per rinforzare la centralità del personaggio di Ray Rubi e della sua dimensione del sogno. L'ultimo giorno di riprese Abel aveva finito di girare in anticipo, e nel tempo rimasto si mise con Luigi Andrei, operatore alla macchina di cui ho grande stima, a girare una inquadratura libera che mi colpì molto e che sembrava racchiudesse il senso intero del film – mentre Willem sedeva e pensava assorto nella poltrona del suo ufficio, la macchina si muoveva girandogli intorno, inquadrandolo dall'alto e percorrendo per intero il suo corpo. Questa immagine, mischiata a un'altra ripresa rubata fuori ciak di una ballerina in tutù, è diventata l'introduzione al film, quasi ad avvertire lo spettatore che non è solo di ballerine e donne nude che si andrà a parlare, ma soprattutto di un uomo e del suo sogno. Questa immagine tornerà più avanti, a sottolineare il momento più difficile di Ray, quando sta rischiando di perdere tutto. Di questo film mi piace molto il suono ‒ tutte le musiche del film sono ancora di Francis Kuipers, eccetto un brano originale di Grace Jones, che comunque ha partecipato come vocalist alla colonna sonora; Silvia Moraes ha fatto un gran lavoro per ricostruire il suono del locale, e ancora una volta Chris David nel missaggio ha saputo mettere insieme il tutto in una perfetta armonia.

Napoli Napoli Napoli, del 2009, è un originale esempio di docu-fiction che alterna interviste alle detenute di un carcere femminile del napoletano e altri materiali documentaristici con tre storie di “finzione”. Il progetto doveva essere inizialmente tutto incentrato sul carcere ed essere un semplice documentario, ma Ferrara ha deciso di espanderne la visione fino a farne un ritratto di tutta Napoli. Tu come hai visto evolversi il progetto?

Non era passato nemmeno un mese dalla proiezione di Go Go Tales a Cannes che Abel mi convocò a Napoli dove stava per girare un piccolo documentario sulle donne detenute nel carcere di Pozzuoli. «Durerà solo una settimana», mi disse; alla fine siamo rimasti lì per oltre due mesi. Il contenuto delle interviste con le donne in carcere era molto forte, comunicavano con sincerità un senso di sofferenza e di ingiustizia; così dopo i primi giorni Abel sentì il bisogno di capire e di raccontare come era possibile che succedesse tutto ciò, e decise a questo scopo di allargare il punto di osservazione e di fare un’indagine su tutta la città, intervistando giornalisti, politici, persone impegnate nel volontariato ecc.  Poi decise di aggiungere tre storie brevi di finzione, che scrisse con Maurizio Braucci, Lanzetta e Di Vaio

Ferrara come dirigeva la troupe per Napoli? Come si svolse il montaggio?

Cartellone per il montaggio per Napoli Napoli Napoli (Abel Ferrara 2009)

Cartellone per il montaggio per Napoli Napoli Napoli (Abel Ferrara 2009)

Venivamo da un film con una mega troupe e 5 milioni di euro di budget, quindi mi colpì molto vedere Abel in una situazione quasi amatoriale darsi da fare e combattere anche più che nell'occasione precedente, e riuscire comunque e nonostante tutto a coinvolgere le persone e a tirare fuori dalle riprese del materiale interessante. Ricordo che quell'estate Garrone stava girando Gomorra negli stessi giorni. C'era stato un indulto, con il risultato che migliaia di persone erano uscite tutte insieme dal carcere senza nessuna prospettiva, nessun aiuto, e c'era davvero molta tensione in città. Abel era diventato subito la star del quartiere, tutti lo conoscevano e gli parlavano in napoletano, era estasiato dal cibo e dal calore delle persone, sembrava essere a casa sua. Poi, man mano che le riprese si allungavano, si erano aggiunti nuovi produttori, complicando ulteriormente la situazione, al punto che Abel ha chiuso le riprese ed è tornato a New York. Avevamo il materiale per tre film, ho preparato con il suo permesso e la sua supervisione un primo montato di 4 ore circa, poi Abel è tornato a Roma e in sei settimane siamo arrivati ai 90 minuti definitivi. Il montaggio del film si è interrotto più volte a causa delle liti tra i produttori, è durato circa 6 mesi durante un anno e mezzo; è stato determinante l'apporto dell'assistente al montaggio, Mauro Ruvolo, per riuscire a portarlo a termine. Per me era importante finirlo, perché lo sguardo di Abel portava un punto di vista onesto e diretto su quelle persone e su quell'ambiente come raramente capita di incontrare. Quelle persone si erano aperte con noi mettendosi a nudo, ci avevano affidato un messaggio, come una richiesta di giustizia e di aiuto, e sentivo molto questa responsabilità.

In Napoli Napoli Napoli trovano spazio anche dei materiali di archivio degli anni ’60. Come li hai trovati?

Cercando materiali sulla guerra, su come era stata distrutta Napoli dai bombardamenti americani durante la Seconda guerra mondiale, mi è capitato di intercettare altre cose fra cui un documentario su Napoli del ’66 – si capisce che si era ancora nella scia del dibattito suscitato da Mani sulla città. Era interessante constatare come già nel 1966 si prevedevano chiaramente le conseguenze sulla società napoletana di un certo tipo di edilizia senza freno. Abel compare come guida in questo viaggio attraverso la città di Napoli e le sue storie. Sono importanti le musiche di Francis Kuipers, che abbiamo usato per il documentario un po’ come in un film di finzione – nei primi piani delle interviste in particolare, le donne detenute sembravano delle attrici eccezionali mentre recitavano le loro storie durissime. Anche se queste storie non sono arrivate a un pubblico più ampio come avrei voluto, mi consola il fatto che il film andò a Venezia e servì da trampolino di lancio per Figli del Bronx, l'associazione che aveva guidato la produzione del film e che oggi è diventata una realtà solida e un punto di riferimento per chi fa cinema a Napoli.

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