Basic Film Making. Conversazione con Peter Zeitlinger sul cinema di Werner Herzog

Peter Zeitlinger (BVK ASC) è nato a Praga il 6 giugno 1960. Dopo l'occupazione sovietica del 1968 e la conseguente instabilità politica, è costretto a lasciare il proprio paese insieme alla madre che sceglie di raggiungere la vicina Austria. A Vienna frequenta la Filmakademie: dopo aver collaborato a diversi progetti con Götz Spielmann e Ulrich Seidl, oggi tra i più importanti rappresentanti del cinema austriaco, a metà degli anni ’90, Zeitlinger inizia il suo sodalizio con Werner Herzog, al cui fianco si spingerà ripetutamente oltre i consueti canoni della rappresentazione cinematografica.  Tra i titoli più importanti: Grizzly Man (2005), Rescue Dawn (2006), Encounters at the End of the World (2007), Il cattivo tenente - Ultima chiamata New Orleans (2009), My Son, My Son, What Have Ye Done (2009), Cave of Forgotten Dreams (2010), Queen of the Desert (2015). Collabora anche con Abel Ferrara e con star hollywoodiane come Nicolas Cage, Nicole Kidman e James Franco. Zeitlinger si occupa fin dagli esordi anche di regia, e negli ultimi anni ha rafforzato la sua collaborazione con la compagna Silvia Zeitlinger Vas. Ha insegnato all’Università Mozarteum di Salisburgo e alla Facoltà di televisione e cinema HFF di Monaco.

 

La collaborazione più importante della tua carriera, non soltanto in termini numerici, è quella con il regista Werner Herzog con il quale hai collaborato per più di vent’anni anni, tra lungometraggi e documentari: come è iniziata la vostra collaborazione? Come vi siete conosciuti?

Grazie a Ulrich Seidl, oggi regista famoso. All’epoca della mia frequentazione della Scuola di Cinema di Vienna era una sorta di outsider e venne addirittura espulso, perché i suoi lavori non erano ritenuti validi: con lui feci diverse cose al tempo, tra cortometraggi e

Loss Is to Be Expected (1992), regia Ulrich Seidl, fotografia Peter Zeitlinger

mediometraggi, e nel 1990 girammo insieme un lungometraggio-documentario chiamato Good News. In questo lavoro si parlava della condizione lavorativa degli immigrati a Vienna, principalmente quelli provenienti dal Bangladesh, assunti dalle maggiori testate nazionali per vendere i loro giornali per le strade della città e nelle stazioni della metropolitana, con delle tipiche uniformi rosse. Seidl voleva mostrare la diversità di classe tra gli stranieri e gli austriaci, lettori di quei giornali. Le agenzie di finanziamento del film lo bloccarono dopo una settimana di riprese perché, a quanto pare, non soddisfaceva i requisiti e volevano immediatamente indietro i soldi. La carriera di Ulrich e la mia sarebbero potute finire in quel momento. Quando girammo questo film, Herzog viveva a Vienna, al tempo era legato a una donna austriaca. Ulrich lo invitò a vedere il nostro film in sala di montaggio e Herzog ne rimase entusiasta, definendo le immagini «The abiss of the human soul». Ne parlò anche su un giornale, sottolineando il mio apporto e facendo il mio nome, aggiungendo che ero stato una vera e propria sorpresa per lui. Beh non potevo crederci, e così gli scrissi una lettera, nella quale gli dicevo: «Se veramente pensi questo allora dovremmo lavorare insieme». Lui ovviamente era molto famoso a quei tempi, però in quel periodo non riusciva più a lavorare, a reperire finanziamenti: era subito dopo la morte dell’attore Klaus Kinski. Dopo circa un anno mi contattò, mi voleva con sé per il suo corso di cinema a Vienna e naturalmente accettai, realizzammo anche un piccolo cortometraggio per i festeggiamenti dei cento anni della nascita del cinema. Mi parlò quindi di un suo progetto, di un documentario che finalmente sarebbe stato prodotto dalla TV tedesca, da girarsi in Italia: mi voleva con lui, e accettai immediatamente.

Quindi l’inizio della vostra collaborazione avvenne in Italia?

Esattamente, tutto ebbe inizio ad Arezzo. Il titolo del nostro primo lavoro insieme è Gesualdo - Morte per cinque voci del 1995, e narra le vicende del compositore Carlo Gesualdo, noto anche come Gesualdo da Venosa. Grazie a questo film e alla mia collaborazione “visiva”, Werner iniziò una seconda carriera.

I film di Herzog, spesso a metà strada tra finzione e documentario, sono stati spesso segnati da travagliate odissee produttive. Come ti sei trovato a lavorare con lui, un regista circondato da una sorta di aura leggendaria e sotto certi aspetti “difficile”?

Non ha mai imitato un metodo, non ha mai seguito uno stile classico cinematografico. Ha sempre tentato di destrutturare il cinema, non ha mai voluto un cinema troppo artificioso. La regola che ama ripetere è questa: “basic film making”. Ama un’estetica grezza in un certo senso, priva di ricerche formali/visive. Per lui basterebbe appena una lampadina sopra la macchina da presa, tutto qui. Ha sempre cercato di minimizzare ogni intervento, ogni effetto luminoso. Da questo punto di vista per la mia professione certo non è il massimo, nel senso che noi cinematographers diamo importanza all’estetica, cerchiamo riprese che abbiano pregi visivi, cerchiamo accorgimenti per migliorare l’illuminazione: Werner al contrario non accetta tutto questo e in ogni lavoro c’è stato un confronto/conflitto tra regista e cinematographer. Da questa lotta, però, siamo sempre arrivati a un punto d’incontro, a una soluzione. Werner ama confrontarsi e scontrarsi, però non porta rancore e tutto finisce immediatamente, la tensione si esaurisce nel momento della discussione. Cosa importante da aggiungere è che nei suoi lavori il rischio è sempre calcolato, forse dall’esterno può non sembrare così, ma in realtà lo si potrebbe paragonare a una sorta di stuntman che calcola ogni possibile rischio. Sa essere un grande amico. Io, lui e mia moglie Silvia siamo come una famiglia, ci vediamo e sentiamo anche quando non giriamo. Tra l’altro ho lavorato anche con suo figlio Rudolph.

Herzog regista. Cosa puoi dirmi in merito al suo modo di girare?

Werner è un regista che si muove in base ad una personale visione interiore. Quello che fa è creare uno stato d'animo generale, l'atmosfera del film: crea uno scenario unico, essere umani e oggetti, funzionali alla storia. Non programma le riprese shot by shot, non ama dirigere in senso tradizionale. Una volta che tutto è pronto, ama improvvisare nel senso che si abbandona ad un caos controllato, in modo da creare sorpresa, fornendo nuovi spunti alla rappresentazione e lasciando molta libertà a tutti, l’importante però è che non si vada incontro all’artificiosità, come lui la definisce. Non ama ripetere la scena più volte. Sapendo che non ci sono troppe possibilità di ripetere la scena, tutti si è più concentrati, è il suo metodo. Non si rivolge quindi agli attori, cercando di spiegare loro come riuscire a creare i loro personaggi: spiega semplicemente il motivo per cui sta facendo il film e ciò che vuole comunicare. Cerca di provocare una casualità naturale, e tutti quei piccoli dettagli e quegli errori che possono creare la sensazione di un mondo più vero, autentico. Anche per me questa casualità controllata è la chiave di lettura perfetta: ecco perché a volte definisco il mio lavoro surfing on accident… navigare gli incidenti, gli imprevisti.

Puoi dire ancora qualcosa sul rapporto di Herzog con la fotografia cinematografica e di conseguenza con te?

Per quanto riguarda il mio lavoro, io e Werner non parliamo molto della lavorazione, non discutiamo mai di estetica e di come dovrebbe essere il film. Quando stiamo girando non mi chiede mai una particolare angolazione, una particolare ripresa, ma lascia a me la decisione di riprendere e di catturare con l’occhio della macchina da presa ciò che reputo sia importante: è una forma di libertà che può intimorire, ma alla fine è ciò che mi piace di più della nostra collaborazione. Riguardo all’aspetto estetico dell’immagine, come dicevo, se Werner nota troppa raffinatezza nell'inquadratura, cerca di spegnerla, sminuirla: non solo odia parlare di estetica, ma odia anche l'estetica nei film, quindi qualsiasi "eleganza formale”. Il mio compito, come uno scultore con uno scalpello di pietra, è quello di “scolpire” con la camera una parte dello scenario che Werner ha creato per portare sullo schermo il contenuto della sua visione. Detto questo, decido io la quasi totalità dell’inquadratura e del movimento della camera: Werner interviene solo quando ha la sensazione che io stia facendo qualcosa di troppo "artistico".

Al fianco di Herzog hai girato film estremi e avventurosi, per non dire spesso pericolosi. Avete girato in luoghi inospitali e selvaggi, come nella giungla thailandese in L'alba della libertà (Rescue Dawn) o in Antartide durante le riprese di Encounters at the End of the World, o ancora in Alaska come nel caso di Grizzly Man. Cosa significa lavorare in condizioni così estreme?

È fondamentale la giusta preparazione, soprattutto in relazione ai mezzi tecnologici che bisogna usare sul set: macchine da presa, obiettivi, monitor, batterie, ecc… Bisogna essere sicuri che l’equipaggiamento tecnico possa funzionare alle temperature più estreme, siano esse estremamente fredde o calde. Per affrontare queste lavorazioni così particolari dal punto di vista ambientale, ho dovuto effettuare delle prove di resistenza dei mezzi che uso abitualmente, testando la loro capacità di “sopportazione” e “sollecitazione”. Bisogna poi ridurre la troupe al minino indispensabile, perché gli spostamenti sono complicati e faticosi. Probabilmente il film più duro è stato Encounters at the End of the World, girato in Antartide, a causa delle temperature molto rigide. Tutto congelava, la camera, l'obiettivo, c'era aria più rarefatta che all’Equatore, ogni singolo passo diventava un’impresa. Fu un’esperienza davvero faticosa, soprattutto quando eravamo sul monte Erebus, un vulcano alto solo 2000 metri ma con la pressione atmosferica dei 4000 metri, dove l'aria è già così rarefatta che alcune persone hanno bisogno di una maschera con bombola d'ossigeno. Per questo film dovemmo fare anche dei corsi di sopravvivenza; tra i vari addestramenti abbiamo dovuto guidare dei mezzi particolari come le slitte con sci.  

Rescue Dawn (2006) è un film drammatico di argomento bellico scritto e diretto da Werner Herzog, basato su una storia vera che Herzog aveva già portato sullo schermo nel suo documentario del 1997 intitolato Little Dieter Needs to Fly, anche questo fotografato da te. Il film è interpretato da Christian Bale nel ruolo del pilota Dieter Dengler: le riprese si sono svolte in Thailandia, dall’agosto all’ottobre 2005. Un film girato nella giungla tailandese, in condizioni a volte molto difficili. La location principale è il campo di prigionia dei comunisti vietnamiti nel Laos (dove è accaduta la vera storia): nell'ultima, magnifica parte, assistiamo sullo schermo a una vera e propria lotta tra l'uomo e la natura. Come è stato girare nella giungla tailandese?

Questa è stata la mia prima esperienza di lavoro con le star di Hollywood e una troupe di 100 persone, compresi capi dipartimento che, per la maggior parte, in passato erano stati nominati all'Oscar: alta concentrazione di professionalità, e, sorprendentemente, anche alta creatività e flessibilità. Dico sorprendentemente perché, nel sistema burocratico dei dipartimenti, è difficile sviluppare flessibilità. Werner all'inizio era contrario all'organizzazione burocratica delle riprese e voleva separare quelle creative dal resto. Ha intrapreso diverse azioni per riuscirci. Il primo giorno di riprese, per esempio, quando tutte le persone stavano uscendo per andare al lavoro seguendo il rigido programma, Werner ed io siamo andati nella piscina dell'hotel e abbiamo fatto una nuotata. Con questa azione provocò una reazione nella troupe che separò i flessibili dai burocratici; questi ultimi si arrabbiarono mentre gli altri si unirono a noi. Non sopportava che ci fosse un camion in giro e molte persone con walkie-talkie, molte delle quali non sapeva cosa stessero facendo. Ha sempre insistito per avere uno zoccolo duro di cinque persone e una zona radio franca intorno a lui. Tutti gli altri membri della troupe erano nascosti e i camion erano mimetizzati, quindi abbiamo potuto girare a 360 gradi. A volte siamo scappati dalle riprese principali con i tre protagonisti lasciandoci alle spalle i camion e la troupe.

Abbiamo girato a mano libera nella fitta giungla, equipaggiati solo con la camera e i machete, mentre il resto della troupe ci cercava disperatamente. Alla fine, i professionisti statunitensi e inglesi, cresciuti nel sistema della specializzazione, hanno iniziato ad aiutarsi a vicenda in modo interdisciplinare. Il tizio delle protesi, per esempio, Conor O'Sullivan, che veniva da Spielberg ed è stato premiato per Salvate il soldato Ryan, il cui compito era truccare le ferite, è intervenuto per aiutare il dipartimento scenografia locale a costruire un tettuccio per l'aereo, dal momento che non riuscivano a farlo. Durante la notte ha riscaldato il vetro plexiglas e l'ha modellato sulla curva del pozzetto di vetro. Quando Christian Bale è entrato, pronto a girare, era ancora caldo e morbido, quindi non poteva toccarlo durante le sue esibizioni nell'improvvisato studio del green screen. Le riprese nella giungla sono state molto faticose: lì bisogna fare i conti con l’umidità, il fango, e con gli insetti che possono anche danneggiare le attrezzature.

Cosa puoi dirmi del set principale, il campo di concentramento?

Il set principale è stato progettato dallo scenografo di lunga data di Werner, Uli Bergfelder. Ha lasciato dopo quattro settimane di preparazione e costruzione perché non è stato pagato dal produttore e non gli sono stati dati i soldi necessari a far procedere il lavoro. Poi è intervenuta una signora giapponese inesperta e ha costruito tutto nel modo predisposto da Uli. Ma non ha invecchiato le strutture della capanna, quindi sembrava tutto costruito da Ikea. Le ho detto che questo campo era già vecchio nella storia ed era sopravvissuto a diverse tempeste tropicali, coperto di fango e piante in crescita. E oltre a questo, i bastoncini di bambù dritti erano così strettamente attaccati l'uno all'altro che non si riusciva a far passare la luce. Ma lei ha insistito e in qualche modo ha convinto anche Werner. Ho chiesto aiuto a Uli, e lui ha detto: devi distruggere la superficie delle capanne; devi invecchiarle. La mia unica soluzione era prendere un machete e fare dei buchi nelle capanne. Tutta la troupe mi ha aiutato: abbiamo messo delle guardie e abbiamo smesso di distruggere le capanne quando sono arrivati ​​Werner e la signora. Quando se ne sono andati, abbiamo continuato. Così abbiamo portato a termine l'idea di Uli del campo e abbiamo ottenuto un set meraviglioso con una luce meravigliosa.

Qual è stata la scena più difficile da girare?

In realtà, sembra arrogante, ma le riprese sono state molto organiche e, come ho detto, il set era pieno di professionisti che hanno eliminato ogni ostacolo trasformandolo al volo in una soluzione creativa. Quindi è stato facile per me. Non ho mai avuto così tanti assistenti e assistenti cameramen come in questo film. Addirittura bastava che pensassi a qualcosa che loro se ne accorgessero e mi anticipassero. Ricordo che dovevamo attraversare un fiume impetuoso per raggiungere un luogo affascinante con tutta la nostra attrezzatura. Questa location non era prevista; l'abbiamo scoperta passeggiando. La troupe locale, in collaborazione con i nostri stuntmen, ha impiegato nemmeno un'ora per costruire un ponte di corda improvvisato in modo da poter attraversare in sicurezza e fare le riprese. Ma dal punto di vista cinematografico, la parte più impegnativa è stata quella in cui Christian Bale doveva scappare dal campo di prigionia e organizzare le armi mentre gli altri ragazzi dovevano raggiungere la cucina dall'altra parte. È stato impegnativo per molte ragioni, una delle quali era che il campo, così come è stato costruito, aveva una logica circolare interna. La cucina con le guardie era in cima, la staccionata era tutt'intorno, e le capanne con le armi erano a metà strada, ma non in linea retta bensì a semicerchio. Come si fa a distinguere un cerchio sullo schermo piatto dove esistono solo sinistra, destra, su e giù? Puoi mostrarlo solo dall'alto. Ma a quel tempo non c'era il drone e l'elicottero era lontano, portarlo per una sola ripresa sarebbe stato troppo costoso. Abbiamo usato una gru in un modo non convenzionale per stabilire l'orientamento spaziale. La sequenza di movimento dei protagonisti in avanti e nell'altra direzione è stata ripresa a blocchi come se fosse una gara di sci catturata da una configurazione multicamera. Ogni ripresa ha preso la direzione e la velocità del movimento da quella precedente, e così via. E un ulteriore movimento della camera attorno agli attori ha coperto il loro inserimento nello spazio  a 360 gradi e li ha collegati con lo sfondo in modo che il pubblico sapesse sempre dove eravamo e quanto eravamo lontani dalla cucina nemica, dove era prevista la sparatoria. Per me questo aspetto era molto importante; in caso contrario, la scena si sarebbe tradotta in una sequenza d'azione scadente, con inquadrature casuali, disorientamento del pubblico e perdita di autenticità, come di solito accade nei film improvvisati. Ha funzionato bene e da allora uso questa scena come esempio didattico sulla gestione dello spazio nel cinema.

Bale offre una grande prestazione. Qual è il tuo ricordo dal set dell’attore americano?

Christian è un uomo simpatico e che lavora sodo. Doveva interpretare un ragazzo magro in una prigione. Lui e i suoi colleghi attori, Jeremy Davies e Steve Zahn, hanno perso 30 chili per questo film. Werner era solidale con loro e dimagriva anche lui. Ha detto che non ha mai chiesto ai suoi attori qualcosa che non avrebbe fatto lui stesso. Abbiamo girato il film dalla fine all'inizio, quindi avrebbero potuto aumentare di peso continuamente durante le riprese invece di perderlo, il che è più impegnativo. Tutti i grandi attori che hanno desiderato lavorare in un film di Herzog, tra cui Nicolas Cage, Tim Roth e Nicole Kidman, hanno dato tutti il ​​meglio e raggiunto una qualità di performance come con nessun altro regista. Christian ha vissuto esperienze reali: appeso a testa in giù ammanettato, aveva la faccia coperta di formiche vive, o immerso in un pozzo. Dato che non facevamo quasi nessuna prova, ero costretto a parlare costantemente con la troupe durante la scena, dando loro istruzioni. Per gli attori inesperti, questo potrebbe essere molto inquietante, ma Christian l'ha presa con pazienza. Con un'eccezione: quando era nel pozzo e io stavo filmando da una gru: non appena era stato immerso sott'acqua, ho gridato all'operatore della gru: “Su, su, su!”. Era troppo lento con il movimento della camera. La scena, fisicamente impegnativa, è stata interrotta dall'affermazione di Christian: «Sott'acqua, ho capito su, su, su!». Dovemmo ripeterlo una volta ancora, e lui si infuriò con me. Dopo la fine del film, durante un’altra produzione, si sono diffuse delle voci in tutta l’industria, secondo le quali Christian aveva urlato contro un direttore della fotografia perché stava spostando una lampada durante una scena, il che lo ha fatto distrarre. Ma io e Christian siamo sempre amici.

Il cattivo tenente - Ultima chiamata New Orleans (Bad Lieutenant: Port of Call New Orleans) (2009) è un film, interpretato da Nicolas Cage ed Eva Mendes, e venne considerato dal produttore come una sorta di remake de Il cattivo tenente (1992) di Abel Ferrara, cosa che Herzog ha smentito più volte. Successivamente hai lavorato proprio con Ferrara in Tommaso (2019), con Willem Dafoe. Come ti sei trovato con Abel?

Abel è ancora più “caotico”, se possibile, di Werner. Io mi trovo molto bene con questo tipo di registi, che non sono molto “burocratici”, che hanno una loro libertà creativa, che non sono chiusi nei protocolli. Abel è molto concentrato sul lavoro; dal suo “caos” vengono fuori cose molto autentiche.  Ma quando parlo di “caos”, lo intendo in senso positivo: il caos non necessariamente ha una valenza negativa, può essere creativo, liberare il talento. Girare con Abel è come un flusso, per usare una metafora, è come il traffico a Napoli. Quando c’è troppa pianificazione, il film diventa troppo industriale.

Ti ha chiesto dei film di Herzog?

No, ma conosce bene Werner e anche Willem: con Werner e Willem inoltre a San Diego abbiamo lavorato insieme a My Son, My Son, What Have Ye Done.

Nella primavera 2010 il governo francese autorizzò Herzog a entrare per primo, per girare un documentario, nella grotta Chauvet (Francia del sud-est), dove alcuni archeologi nel 1994 avevano scoperto pitture e incisioni di 32.000 anni fa raffiguranti animali. Nacque così il documentario Cave of Forgotten Dreams (2010). L’hai girato in 3D, con quali macchine da presa?

Mi è stato impossibile fare dei sopralluoghi, e così eravamo consapevoli che avremmo girato senza sapere a cosa si andava incontro. Werner inizialmente non era convinto dell’uso del 3D, infatti aveva fatto da solo delle riprese di prova con una telecamerina: si accorse però che senza il 3D non c’era profondità, che i rilievi della grotta non venivano valorizzati adeguatamente, non c’era la magia che scaturiva dalla struttura tridimensionale delle rocce. Così si convinse e decise di girare in 3D: ma non era affatto semplice, molte ditte inizialmente si erano offerte per fornirci i supporti tecnici, ma poi si tirarono indietro perché non potevano garantirci la perfetta funzionalità dei loro prodotti in quelle condizioni. Come spesso mi è capitato nel corso della mia carriera, sono riuscito a risolvere il problema ricorrendo a soluzioni semplici, non necessariamente ipertecnologiche, usando in questo caso due videocamere GoPro, quelle che si usano per le riprese sportive, unite con un nastro. La ditta produttrice successivamente riprese questa mia idea.

Queen of the Desert (2015) è stato un film molto differente dagli altri girati con Herzog per budget e struttura narrativa.  Si racconta sullo schermo parte della vita di Gertrude Bell, archeologa e politica britannica attiva in Medio Oriente all'inizio del Novecento, interpretata da Nicole Kidman.

Insieme a Il cattivo tenente - Ultima chiamata New Orleans, con Cage, è il film più “hollywoodiano” che ho girato con Werner. Un film importante dal punto di vista del budget, dei mezzi a disposizione, con una troupe numerosa. Tutto era organizzato alla perfezione. Le riprese sono state suddivise in tre fasi distinte, quindi la mia giornata lavorativa non è stata sempre la stessa. Nella prima fase, abbiamo fatto tutte queste meravigliose riprese nel deserto, con il vento e la neve. È stato un tipo di ripresa molto "in stile documentaristico". Non avevamo ancora gli attori principali: avevamo solo i comprimari, e Silvia, mia moglie, che cavalcava il cammello come controfigura per Nicole Kidman. Nella seconda fase, abbiamo avuto tutti gli attori principali sul set, e così abbiamo cominciato a lavorare in modo consueto. Contrariamente alla prima fase, avevamo un programma giornaliero dettagliato che elencava le scene da girare nel deserto. Tuttavia, come sempre accade quando c'è un programma, Werner ha continuato a cambiare le cose all'ultimo momento, al fine di disturbare in qualche modo gli attori e la troupe per svegliarli e tenerli freschi. Non ama la routine. Sai, quando ti capita di girare tutti i giorni, diventa una routine, anche se sei immerso in un paesaggio naturale unico al mondo. La terza fase è stata la parte più “professionale” delle riprese. Lavoravamo in Inghilterra, con un'enorme troupe inglese, e ci siamo trovati di fronte a questo sistema dipartimentale molto rigido, in cui ogni persona svolge solo una piccola parte del lavoro. Tutto era molto, molto burocratizzato. Werner di solito lavora con la sua crew composta da pochissime persone che fanno tutto: siamo multifunzionali, quindi ogni volta che c'è bisogno di fare qualcosa, lo facciamo noi stessi. Ci piace molto lavorare in un modo così caotico e anarchico. Va bene per i progetti di Werner. Durante le riprese di Queen of the Desert in Inghilterra questo non poteva accadere, tutto era molto, molto pianificato e organizzato nei minimi dettagli. Non mi piace quando tutti eseguono gli ordini e basta. Preferisco quando sul set c'è un'atmosfera intima, amichevole, complice e creativa.

In questo film Nicole Kidman incarna lo spirito dell’eroe tanto caro al cinema di Herzog. Come è stato lavorare con lei?

Trovandoci nel deserto, non poteva allontanarsi dal set: sebbene avesse i suoi assistenti e bodyguards con mia moglie abbiamo avuto modo di conoscerla.

In questo film hai illuminato anche l’attore James Franco, e in seguito avresti firmato la cinematografia di due sue regie: Future World (2018), co-diretto con Bruce Thierry Cheung, e Pretenders (The Pretenders) (2018). Come è nata questa collaborazione?

Sul set di Queen of the Desert. Con James c’è stato un rapporto più stretto rispetto a Nicole, ci siamo trovati benissimo sin da subito. Anche Val Kilmer ad esempio mi chiese di lavorare con lui dopo Il cattivo tenente. Molti degli attori con cui ho lavorato hanno apprezzato il mio lavoro, il fatto che io concedessi loro molta libertà di azione e movimento.

Per girare Queen of the Desert hai preso a riferimento qualche film del passato?

No. Io evito di guardare film simili per ambientazione o storia a quello a cui sto lavorando, per evitare che possano influenzarmi. Voglio pensarlo soltanto con i miei occhi, per essere libero, senza condizionamenti. Purtroppo molti giovani oggi, al contrario, cercano di prendere ispirazione dai film che vedono, spingendosi quasi al semplice copiare. L’unica possibilità di creare qualcosa per un artista, in ogni campo, è quella di rifarsi alla propria esperienza, alla propria visione. 

Hai accennato al fatto che tua moglie Silvia ha lavorato con te in questo film come controfigura della Kidman. Silvia è soprattutto un’attrice, un’assistente alla regia e una fotografa. Come vi siete conosciuti? Come condividete la vostra vita privata e lavorativa?

Silvia era una famosa attrice di teatro in Austria quando ci siamo conosciuti. Rimase molto delusa dal teatro, perché pensava che il teatro dovrebbe educare l'umanità insegnando con le migliori parole dei più grandi pensatori. Secondo lei i grandi teatri si stavano trasformando in intrattenimento, la gente guardava Brecht vestita con abiti Armani con un bicchiere di champagne in mano, e questo non era sopportabile per lei. Voleva lasciare l'industria dell'intrattenimento e fare qualcosa di significativo. Al suo ultimo lavoro in un film tv ci siamo incontrati. Ero il cinematographer. Ci siamo innamorati e sposati. Sapevamo che lavorare nell’industria cinematografica era molto difficile per le coppie, comunque ha lasciato il teatro e siamo andati insieme a Werner Herzog a fare film in giro per il mondo e abbiamo realizzato i nostri piccoli film per molti anni. Ora stiamo preparando il secondo lungometraggio, un film in costume sulle donne che negli anni '20 hanno salvato le loro famiglie in Slovenia e in Friuli emigrando in Egitto per lavorare lì.

Hai girato in pellicola e in digitale; qual è il tuo pensiero in merito a questi due supporti? Quale preferisci e perché?

Non ho patito il passaggio dalla pellicola al digitale: non è stato scioccante come per molti miei colleghi. Per molti di loro la pellicola è superiore al digitale, io penso che bisogna prescindere dal supporto: oggi chi gira in pellicola, secondo me lo fa più per prestigio, per creare più interesse, ma non sono convinto che la pellicola sia migliore del digitale. Bisogna avere delle buone idee soprattutto.

Hai un tuo particolare stile fotografico? Quali sono i tratti distintivi della tua narrazione visiva?

Fare un film è come danzare, soprattutto quando porti fisicamente con te la macchina da presa. La macchina da presa è la mia compagna di ballo: mentre mi muovo sul set, la tengo tra le braccia, facendo piccoli passi a destra e a sinistra, avanti e indietro, mentre gli attori eseguono contemporaneamente la propria coreografia. Siamo immersi in questo scenario, in questo campo energetico, e interagiamo. La mia speranza è che attraverso tutto questo movimento, anche il pubblico finisca per sentirsi parte della storia.

Nei tuoi anni a Vienna presso la University of Music and Performing Arts, hai avuto come insegnante Sven Nykvist, di cui nei mesi scorsi si è celebrato il centenario della nascita. Cosa ricordi di lui, cosa ti ha trasmesso?

Sven era una persona molto tranquilla, poco estroverso. Da lui ho imparato a essere una tigre di fronte alla preda: saltare nel momento giusto, soltanto una volta, o prendi la preda o l’abbandoni. Non è una metafora usata da Sven, ma una cosa che io ho tratto da lui. Anche io mi sento come una tigre sul set: bisogna essere pronti a cogliere l’attimo perfetto.

Dal 2012 sei professore di Cinematografia presso la University of Television and Film a Monaco. Cosa cerchi di insegnare, di trasmettere ai tuoi studenti?

Insegnando a tanti giovani ho notato che non sono pronti alle sorprese, agli imprevisti. Vanno subito nel panico, devono essere tranquilli e aspettare il momento giusto per fare le giuste riprese. Cerco di convincerli a non copiare, ma a mettere in pratica ciò che hanno sperimentato loro stessi. Ovviamente è più difficile per loro, che sono nati dentro la cultura dell'immagine.

Nel 2022 hai ricevuto il Premio Gianni Di Venanzo per il film L’angelo dei muri (2022), regia di Lorenzo Bianchini. Sempre per questo film sei stato nominato anche ai Camerimage…

Devo dire che le Giurie del Di Venanzo e dei Camerimage hanno saputo cogliere perfettamente l’aspetto artistico/estetico del film. Un piccolo film, che la critica ha saputo apprezzare. Per un cinematographer è stata una sfida stimolante, perché è un film quasi privo di dialoghi, e così le immagini diventano le vere protagoniste. Un film girato in pratica in un’unica location, un appartamento. In questo lavoro ho imparato molto in termini di combinazione creativa tra macchina da presa ed effetti digitali. Anche se il film è stato girato con un budget molto limitato, eravamo costantemente alla ricerca di soluzioni per trasportare sullo schermo le idee del regista. Personalmente ho persino trovato molto stimolante lavorare in questa situazione; in qualsiasi progetto, penso che i limiti alimentino la creatività. Per ciò che riguarda la location del film, era impensabile ricreare tutto in studio, per via del budget ridotto. Così abbiamo scelto di girare in una villa ad un piano nella campagna friulana, un luogo disabitato da anni. Per gestire la vista dalle numerose finestre sui tetti della città, siamo ricorsi ad enormi stampe laminate di 6 m x 6 m realizzate con negativi di pellicola fotografati dall'appartamento che avevamo scelto per le poche riprese esterne del film (soprattutto per le scene diurne), mentre per quelle più complesse, in particolare quelle che prevedono il movimento dall'interno verso l'esterno (o le vedute notturne dalle finestre), abbiamo utilizzato dei fondali. Fortunatamente, la mia esperienza nel campo degli effetti visivi e del compositing ci ha permesso di trovare le soluzioni più adatte ed efficaci. Per quello che riguarda lo stile di ripresa, abbiano fatto ricorso in modo importante al piano sequenza: penso che i piani sequenza diano sostanza al mondo che stai filmando. Portano lo spettatore nell'universo del film, senza l'artificio del "taglio". Sai, ogni taglio − anche se gli spettatori ci sono abituati − è disorientante. Spetta quindi al tuo cervello ricostruire il mondo che ti viene presentato. Soprattutto quando sei in ambiente unico, come in questo film. Inoltre, girare una lunga sequenza è un modo per seguire le emozioni il più da vicino possibile. Dare ritmo alla storia mentre viene girata, e non necessariamente affidare le redini al montatore. Perché alla maggior parte di loro piace fare tagli. È il loro lavoro, dopotutto! Ci sono stati molti elementi in questo film che mi hanno aiutato a creare una sorta di “montaggio interno” alla singola inquadratura.

Con quali camere hai girato?

Ho scelto il sistema DJI Osmo Pro Raw per girare la maggior parte del film: l'avevo già testato su Tommaso di Abel Ferrara. È fondamentalmente una soluzione all-in-one prodotta dal marchio cinese DJI, che in particolare produce droni e stabilizzatori Ronin. I suoi unici limiti sono la sensibilità, che non va molto oltre i 200 ISO, e la dimensione del sensore (4/3 CMOS), che impone una profondità di campo molto ampia a focali corte con i pochi obiettivi compatibili, nessuno dei quali produce un'immagine molto luminosa. Ecco perché a volte ho optato per shots più semplici con una Blackmagic Pocket 4K, puoi usarla con obiettivi più sensibili e più lunghi.

Tra i cinematographers di oggi chi preferisci?

Il più grande è Vittorio Storaro, l’ho conosciuto e ho fatto dei corsi con lui. Tutto il suo corpus cinematografico mi ha insegnato molto: i suoi film sono sculture del mondo. Novecento è il suo film che preferisco. Nella generazione successiva mi piace Emmanuel Lubezki. Oggi purtroppo il sentimento dell’immagine è sparito, non c’è più anima nelle immagini contemporanee.

Il tuo ultimo lavoro?

Un film spagnolo in bianco e nero intitolato Centaurs of the Night, diretto da Marc Recha.

Vivi a Premariacco, Friuli-Venezia Giulia. Perché hai scelto di vivere in Italia?

Per prima cosa io sono cresciuto con i film italiani e i grandi registi come Fellini, Antonioni, Bertolucci, Pasolini. Secondo motivo, perché mi è sempre piaciuto lo stile di vita italiana e poi, la terza cosa, il cibo.

 

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