La carriera di un cinematographer. Conversazione con Hiro Narita

Hiro Narita è un cinematographer, membro della American Society of Cinematographers (ASC) e dell'Academy of Motion Pictures and Sciences. Nasce il 26 giugno 1941 a Seoul (Corea del Sud) da genitori giapponesi. Nel 1945 lui e la sua famiglia si trasferirono a Nara, in Giappone, e successivamente a Tokyo. Dopo la morte prematura di suo padre e il nuovo matrimonio di sua madre con un giapponese americano, emigra a Honolulu, Hawaii, nel 1957, dove si diploma alla Kaimuki High School. Frequenta il San Francisco Art Institute dove riceve un BFA in Graphic Design nel 1964. Ottiene rapidamente una buona posizione presso un'importante azienda di design locale, ma dopo appena sei mesi viene arruolato nell'esercito degli Stati Uniti. Per due anni lavora come designer e fotografo al Pentagono. Quando si congeda dall'esercito degli Stati Uniti, John Korty, regista di The Autobiography of Miss Jane Pittman e del documentario Who Are the DeBolts? And Where Did They Get Nineteen Kids? (Premio Oscar per il miglior documentario) lo prende sotto la sua ala protettrice. Con Korty, per più di tre anni, collabora come assistente cameraman, gaffer, proiezionista, disegnatore di poster cinematografici, e altro. Dopo l’esperienza come operatore di ripresa aggiuntivo in Zabriskie Point (1970) di Antonioni, John Korty gli regala il primo film della sua carriera, un film tv intitolato Farewell to Manzanar (1976), per il quale riceve una nomination agli Emmy Award. Narita ha quindi lavorato in diverse mansioni in film come: The Last Waltz, More American Graffiti, Never Cry Wolf (per questo film vince il Boston Society of Film Critics Award e il National Society of Film Critics Award), Return of the Jedi, Indiana Jones and the Temple di Doom, Always, Honey, I Shrunk the Kids, Star Trek VI: The Undiscovered Country, Dirty Pictures, The Rocketeer, Hocus Pocus, The Time Machine, The Arrival.

Hiro Narita

Hiro Narita

Cosa ha suscitato il tuo interesse per la direzione della fotografia?

Mi sono laureato al San Francisco Art Institute nel 1964 e in meno di sei mesi, mentre lavoravo in uno studio di design, sono stato arruolato dall'esercito americano. Ne conseguì l’interruzione della mia carriera per due anni. Durante il mio servizio militare ho avuto occasione di vedere molti film nei fine settimana e ho iniziato a interessarmi ai film, sia per intrattenimento, sia perché mi erano di ispirazione. Le sequenze di immagini in movimento avevano grandi potenzialità per esplorare le emozioni umane e raccontare storie complesse. In quel periodo un'ondata di opere di grandi registi europei e giapponesi riempì i cinema d’essai e io ne fui letteralmente travolto. Le immagini bidimensionali su uno schermo possono creare molte percezioni nel nostro spazio psichico, e questo mistero ha rafforzato il fascino che i film esercitavano su di me. Dopo essermi congedato dal servizio militare, mi ci sono voluti circa dieci tortuosi anni per passare dal graphic designer alla direzione della fotografia. A pensarci bene, è stato il servizio militare a cambiare il corso della mia vita professionale.

Cosa ci puoi raccontare della tua esperienza in Zabriskie Point (1970) di Michelangelo Antonioni?

Ero un ammiratore dei film di Antonioni, inclusi i suoi primi documentari; il suo straordinario senso dello spazio, le composizioni delle inquadrature e le sue immagini emozionanti mi hanno sempre ispirato. Dopo che vide le riprese che feci per uno screentest mi chiamò a filmare rivolte civili e manifestazioni studentesche che stavano prendendo forza in diverse grandi città statunitensi. Ero onorato, ma impacciato, persino pietrificato, di dover soddisfare le sue aspettative. Antonioni volle queste specifiche sommosse come riferimento e possibile utilizzo per Zabriskie Point, la cui la trama rifletteva l'atmosfera del tempo. I due eventi principali, la dimostrazione del Fronte di Liberazione del Terzo Mondo al San Francisco State College e la Convenzione Democratica di Chicago, sono diventati il ​​punto focale del mio impegno. Spesso sono stato gettato in situazioni caotiche, ondate di persone senza alcuna remora e fuori controllo. Durante queste riprese mi sarebbe potuto venire in mente di fare eco alla prospettiva di Antonioni, ma sarebbe stato inutile e pretenzioso da parte mia. Di fronte a eventi reali al di fuori del mio controllo, ho cercato di rimanere un osservatore imparziale, puro cinematographer, ma a volte la mia visione soggettiva prendeva il sopravvento. Ripensandoci, devo ammettere che realtà e finzione potrebbero essersi incrociate nella mia avventura. Speravo che le immagini che riprendevo potessero almeno fornire una trama, una parte del mosaico della cultura americana in quei momenti. Alla fine molte delle mie immagini sono finite in Zabriskie Point, mescolandosi alla scena della rivolta studentesca. Durante l'ultimo mese di produzione mi è stato chiesto di sostituire il fotografo di scena, in partenza per un altro incarico. È stata l'occasione per seguire da vicino il lavoro di Antonioni. Una delle scene in cui ero presente vedeva il protagonista (Mark) che fa atterrare il suo aereo e viene colpito dalla polizia. Antonioni ‒ mi fu detto dal suo assistente che era la sua routine quotidiana ‒ chiese alla troupe di farsi da parte e dargli un momento per preparare la scena da solo, senza interferenze, senza domande. Ho letto successivamente, in una sua intervista, che non era solito prepararsi la sera prima. Conosceva il copione a perfezione ma aveva bisogno di vedere i luoghi e i set con occhi nuovi per formare una costruzione visiva della scena, solo allora la messa in scena prendeva vita. Gli attori e la macchina da presa venivano posizionati dopo che lui aveva visto l'ambiente circostante, la scena prendevano azione. Ho capito allora quello che diceva sulla sua posizione percettiva: «un occhio guarda fuori e un occhio guarda dentro». Piuttosto che emulare il suo lavoro, tentativo impossibile e futile, ho fatto del mio meglio per fare eco ai suoi pensieri: un occhio aperto verso l'esterno, un occhio rivolto verso l'interno.

Rivolte in Zabriskie Point (1970)

Rivolte in Zabriskie Point (1970)

Zabriskie Point

Zabriskie Point

Il tuo primo lavoro importante è un film per la tv del 1976 intitolato Farewell to Manzanar, diretto da John Korty. Cosa ce ne puoi raccontare?

Quando sono tornato dal servizio militare, ho lavorato come apprendista con un regista locale, John Korty, per oltre tre anni, formandomi in molti aspetti del cinema, inclusa l'animazione. Quando John ricevette l’incarico di dirigere Farewell to Manzanar, colse questa opportunità e mi assunse come direttore della fotografia; il mio primo grande progetto. La storia, basata su un fatto vero, trattava un tema controverso: l’internamento americano-giapponese durante la Seconda guerra mondiale. Ammetto che all’epoca sapevo davvero poco sull'argomento, come immigrato dal Giappone nel 1957. Ho dovuto informarmi rapidamente. Quando la produzione è iniziata, la voce si sparse e molti ex internati, i loro familiari e i loro amici si sono offerti volontari nella produzione, come costruttori di set, produttori di oggetti di scena e comparse. È stata un'esperienza importante, sia professionalmente (venni nominato agli Emmy) sia personalmente (per approfondire la storia giapponese americana). Ecco un retroscena, un karma o una strana coincidenza: durante Zabriskie Point Antonioni aveva chiesto di recarmi a Tule Lake, California, per filmare i resti delle baracche di internamento dell'epoca della guerra, alcune completamente crollate e in rovina, altre convertite in capanne di caccia alle anatre. Non conoscevo il significato di un posto del genere, di quegli edifici, perché sapevo così poco di casi di ricollocamento e recupero in quel momento. Non sapevo perché Antonioni fosse interessato a un posto del genere e che legame ci potesse essere con Zabriskie Point. Mentre stavo posizionando con attenzione la mia macchina da presa, un ragazzino di circa dieci anni, che stava giocando da solo con pezzi di assi rotti, si avvicinò a me e in modo abbastanza innocente mi disse: «Sai, i giapponesi vivevano qui». Sei anni dopo, mi sono trovato nello stesso luogo, quasi nello stesso punto, quando abbiamo costruito i set per Farewell to Manzanar! La curiosità di Antonioni per quel posto è rimasta un mistero.

Farewell to Manzanar, John Korty (1976). Foto Barbara Narita

Farewell to Manzanar, John Korty (1976). Foto Barbara Narita

The Last Waltz è stato il concerto d’addio del gruppo rock canadese-americano The Band. L'evento è stato filmato da Martin Scorsese e trasformato in un documentario con lo stesso titolo nel 1978. Cosa ricordi di quell'esperienza?

The Last Waltz si è svolto al Filmore di San Francisco, ed è stata un'esperienza insolita e straordinaria per me. David Meyer, un affermato cameraman di film-documentari e film-narrativi, già membro del progetto, convinse Martin Scorsese ad aggiungermi nell’elenco di ulteriori direttori della fotografia. Durante il briefing Scorsese consegnò a ciascun cameraman un copione assai voluminoso con istruzioni dettagliate praticamente per ogni riga del testo di ogni canzone, quale camera dovesse concentrarsi su chi, e quale ripresa adottare, ad esempio totale o primo piano, ecc. Rimasi sbalordito dalla sua preparazione e dalla previsualizzazione. Ci fornirono delle cuffie in modo da poter sentire la sua direzione durante le riprese. David Meyer mi disse, prima che il concerto iniziasse, con una leggera rotazione negli occhi, «Segui il tuo istinto». Infatti, come era prevedibile, una volta che il palco esplose con i cambi di musica e luci, ci ritrovammo in una sorta di pandemonio. Riuscivo a malapena a capire cosa stesse urlando Scorsese al microfono. Mentre seguivo la sceneggiatura avevo un assistente che mi ha gridava quale cantante o strumentista avrei dovuto riprendere in un dato momento, ma poiché la mia camera era posizionata nel backstage e puntava verso il pubblico e non avendo le migliori angolazioni, ho seguito, come disse David, qualunque cosa sembrasse giusta in quelle circostanze impotenti.

In Apocalypse Now (1979) diretto da Francis Ford Coppola hai collaborato come operatore aggiunto: cosa ricordi di quell'esperienza?

La mia esperienza in Apocalypse Now fu sporadica e limitata. E si risolse principalmente in primi piani e riprese quasi alla fine della post produzione. Francis Coppola fu presente soltanto in un’occasione, quando filmammo la testa di Martin Sheen che usciva dalle acque di un fiume. Girai nella vigna di Francis e in un fiume nei pressi della stessa.

Con il film Mai gridare al lupo (1983) diretto da Carroll Ballard hai vinto il Boston Society of Film Critics Award e il National Society of Film Critics Award. Uno dei tuoi migliori lavori ...

Il regista Carroll Ballard, prima di lasciare la California, mi mostrò il lavoro di Maxfield Parrish e mi disse che voleva catturare la qualità magica della luce estiva artica. Era quello il punto di partenza. La storia comprendeva vasti paesaggi, diversi tipi di animali, un clima mutevole e culture diverse. Quando lessi la sceneggiatura, immaginai come avrebbe potuto tramutarsi sullo schermo. Ma questi elementi, come spesso succede, anche quando si studia molto, alla fine sono venuti fuori dai miei ricordi e dalle mie esperienze. Ero pronto ed essere aperto a ciò che c'era, vedendolo e apprezzandolo in una luce sconosciuta. E molte sorprese ci aspettavano. Carroll, lui stesso un grande direttore della fotografia e un regista esperto, voleva esplorare senza sosta, voleva sorprendersi. Diceva spesso: «Cos'altro possiamo fare?». Prima descriveva il significato di una scena, poi cercava immagini che supportassero esplicitamente ed implicitamente la sua visione. Fondamentalmente ci diceva che l'atmosfera e il paesaggio erano elementi importanti nella storia, personaggi rilevanti senza dialoghi. Alla fine il cosiddetto stile visivo è nato da ciò che abbiamo visto e da come lo abbiamo catturato. Penso che il film sia stato il film più stimolante e avvincente in cui abbia mai lavorato. Affrontare il tempo imprevedibile e situazioni fuori dal nostro controllo era diventata la norma. Dopo cinque mesi a girovagare in Alaska, British Columbia e Yukon Territory, Carroll disse di non avere ancora un film! Così, l'anno successivo, abbiamo trascorso altri cinque mesi attraversando il vasto nord. Verso la fine girammo la stessa scena in tre diverse situazioni, una con la nebbia, una con la neve e una con la pioggia perché il clima camaleontico non ci diede abbastanza tempo per finirla nella stessa condizione. La Disney sentiva che la mia fotografia stava uscendo dai suoi criteri e voleva che cambiassi modo di lavorare o che venissi sostituito. Carroll, grazie alla sua convinzione, mi protesse e mi mantenne nel film fino alla fine. Mai gridare al lupo è stato una prova per la nostra perseveranza e, in larga misura, per il nostro equilibrio mentale.

Hiro Narita sul set di Mai gridare al lupo, Carroll Ballard (1983). Foto Barbara Narita

Hiro Narita sul set di Mai gridare al lupo, Carroll Ballard (1983). Foto Barbara Narita

Ne Il ritorno dello Jedi (1983) - noto anche come Star Wars: Episode VI - Return of the Jedi - diretto da Richard Marquand hai lavorato come cinematographer aggiunto: cosa ricordi?

Quando sono stato coinvolto in Return of the Jedi, il film era quasi completato e Marquand aveva solo bisogno di alcune riprese aggiuntive da inserire nella storia. Siamo andati nella Death Valley, non lontano dalla location di Zabriskie Point, per filmare una lastra di vetro e altri spaccati in cui R2-D2 e C-3PO viaggiano verso Jabba Palace. Successivamente un matte painting del palazzo venne realizzato con una ripresa Vistavision. L'abbigliamento metallico di C-3PO era indossato da Anthony Daniels, l'unico attore che per contratto poteva indossarlo, ma R2-D2 era un robot telecomandato. E il robot era incline ad andare in tilt quando captava le onde radio degli aeroplani in volo, in particolare degli aerei militari. Marquand, che era abituato a questo fenomeno noioso e stravagante, era molto paziente, così come George Lucas, che ha seguì tutto. Ricordo quanto tempo richiedesse l'impresa, quando l’ho rivisto sullo schermo ma era magico.

Return of the Jedi, Richard Marquand (1983)

Return of the Jedi, Richard Marquand (1983)

In Indiana Jones e il tempio maledetto diretto da Steven Spielberg (1984), hai collaborato come seconda unità?

Questo progetto mi coinvolse per brevi riprese e un ampio ricorso al blue screen. Una scena che Spielberg venne a dirigere alla ILM fu quella di Harrison Ford in una grotta che si risveglia da un sogno. Spielberg deve aver impostato una dozzina di angoli di ripresa nonostante la breve scena. George Lucas sbirciando sul set, gli disse scherzando: «Lo farei con una sola ripresa». E Spielberg gli rispose: «Ma io non sono te». Era evidente la loro grande amicizia e una certa, molto amichevole, rivalità.

Nel 1989 hai fotografato gli effetti visivi nel film di Spielberg Always. Cosa ci puoi raccontare?

Il mio obiettivo principale era ottenere una corrispondenza perfetta con le riprese della prima unità nonostante le differenze di scala e la disponibilità spesso limitata del girato della prima unità. Nella scena dell’incendio, Mentre provavo l'esposizione e il colore ho notato che il fuoco, paradossalmente, mancava di realismo, sia a occhio che sulla pellicola. C’era bisogno del supporto di luci artificiali. Il gaffer di ILM - Industrial Light & Magic propose di appendere dei Maxi Bruti al soffitto e di mettere dozzine di par lights sul pavimento, tutte collegate a scatole flicker. Questo ha certamente contribuito a creare un effetto molto brillante e quando un modellino di aeroplano è passato in volo l'incendio sembrava davvero convincente. L'incontro con questo insolito progetto mi ha fornito molte informazioni sull'arte della cinematografia. Joe Johnson ha diretto l'unità in miniatura.

Always, Steven Spielberg (1989)

Always, Steven Spielberg (1989)

Cosa puoi dirmi del tuo incontro con Gordon Parks e del film che hai realizzato con lui, Solomon Northup's Odyssey, un lavoro per la televisione americana del 1984 basato sull’autobiografia di Solomon Northup Twelve Years a Slave?

Solomon Northup’s Odyssey, della serie American Playhouse per Public Broadcasting Service (PBS) è stata girata in 16mm, con location a Savannah, Georgia. Mi sentivo un apprendista di Gordon Parks, un uomo del Rinascimento le cui fotografie, i cui film, la musica e le opere letterarie erano così vaste e al di là della mia comprensione. Tuttavia, il suo stile da regista era minimalista, succinto e chiaro da seguire. Al cast, alla troupe o a chiunque altro non è stato mai detto più del necessario: è riuscito a mantenere le sue complesse emozioni sotto una facciata austera, con ironia e arguzia. Ero ben lungi dall'essere sulla sua stessa lunghezza d'onda, ma ero stimolato e spinto a fare del mio meglio. Gordon era molto attento, inutile dirlo, al colore, alla composizione e alla trama visiva (illuminante per i miei interessi), ma li esponeva placidamente. Con la sua ricchezza di esperienze, era ancora un curioso esploratore. Si è concentrato sugli attori in modo che le loro espressioni emotive potessero emergere involontariamente, incondizionatamente, oltre la performance tecnica. Mi sono reso conto che dopo decenni passati a fotografare il movimento per i diritti civili e le vite afroamericane, persone disperate o al potere, l'intuizione di Gordon Parks era davvero perspicace. La sua innata e colta capacità di vedere e tirare fuori ciò che c'era sotto lo strato di maschere che tutti indossavano era abbastanza visibile. E in questo serial con un budget limitato, trovare e fare affidamento sulla fonte naturale di luce, riducendo così al minimo la quantità di luce e attrezzatura di ripresa, è stato uno dei migliori insegnamenti che ho avuto facendo cinema.

Riguardo invece al documentario Half Past Autumn: The Life and Works of Gordon Parks (2000) diretto da Craig Rice?

Half Past Autumn, un documentario biografico su Gordon Parks, era un progetto incompiuto e Gordon ne prese il controllo e lo riscrisse con un nuovo scrittore. Sono stato invitato a collaborare per fotografare ulteriori filmati che sarebbero serviti per colmare le lacune: interviste, e Gordon stesso durante il processo di creazione di Half Past Autumn. C'è un breve segmento in cui Gordon sta componendo una musica per il film nel suo soggiorno. Dal momento che non leggeva né scriveva note musicali, usava il suo sistema di notazione, numeri e simboli, decifrabile solo da lui. Mi disse che tra tutti i media ‒ film, fotografia, prosa, poesia, pittura ‒ in cui lavorava, si sentiva particolarmente a suo agio con la musica. La musica gli veniva in mente, trovando la sua strada attraverso le crepe della sua coscienza; l’enigma della creatività. In questo progetto, ancora una volta, il primo passo è stato trovare le angolazioni migliori e più appropriate, aumentando l’effetto con le luci se necessario. Ho usato solo due piccole luci per tutto il tempo di lavorazione.

Hiro Narita con Gordon Parks (1982)

Hiro Narita con Gordon Parks (1982)

Cosa puoi dirci della tua collaborazione con il regista Joe Johnston, con il quale hai fotografato Honey, I Shrunk the Kids (1989) e The Rocketeer (1991)?

Avendo lavorato con l’Industrial Light & Magic per molti anni come creativo addetto alla linearità della storia per la serie Star Wars, Joe Johnston era molto esperto nel comporre azioni dal vivo con set in miniatura, blue screen e una serie di effetti visivi. In Honey, I Shrunk the Kids ha dovuto fare i conti anche con set in scala. Abbiamo girato la parte principale del film ai Churubusco Studios di Città del Messico per motivi finanziari. Una strada in esterni, diversi interni e, naturalmente, i set in scala sono stati costruiti lì. È stata la mia prima esperienza con dei set imponenti e con una grande quantità di luci. Il mio gaffer proveniente dagli Stati Uniti, uno dei pochi membri della troupe di lingua inglese, era molto creativo e mi ha aiutato immensamente. Per The Rocketeer Joe non voleva la semplice trasposizione del fumetto. La storia è ambientata intorno alla metà degli anni '30 e durante le ricerche su quel periodo mi sono reso conto che i film a colori erano rari ed erano nella loro fase iniziale. Mi sono ispirato invece alla tavolozza dei colori dei poster cinematografici di quel periodo. Il design delle scenografie e dei costumi ha aggiunto un grande sapore visivo e mi è piaciuto ogni giorno di lavoro, per quanto impegnativo. Entrambi i progetti non hanno utilizzato la computer grafica né gli effetti digitali, sono stati prodotti alla vecchia maniera.

The Rocketeer, Joe Johnston (1991)

The Rocketeer, Joe Johnston (1991)

Cosa ricordi della fotografia di Star Trek VI: The Undiscovered Country (1991)?

Il regista Nicholas Meyer e il produttore Steven-Charles Jaffe sono venuti a trovarmi sul set di The Rocketeer e sono rimasti affascinati dalla griglia di illuminazione guidata dal computer, procedimento che, dopo il pre-equipaggiamento, ha accelerato le riprese di giorno in giorno. Nick si sentiva a suo agio con il mio metodo di lavoro e così entrai a far parte del suo progetto. Gli ho detto in anticipo che non ero un fan di Star Trek. Era felice che non lo fossi. Non voleva che fossi influenzato da preconcetti di sorta. Una sfida che ho dovuto affrontare è stata che c'erano consolidate consuetudini in Star Trek; per quello che riguarda il set e, in una certa misura, per lo stile visivo. E per ridurre i costi abbiamo dovuto riciclare alcuni vecchi set. Il regista voleva aggiornare le immagini, ma abbiamo incontrato la resistenza di coloro che erano legati al franchise precedente e, pensandoci bene, ci sono stati molti compromessi, al di fuori del controllo del regista.

Quale film del passato ti ha colpito di più dal punto di vista cinematografico nella tua formazione artistica?

Alcuni film mi hanno lasciato una forte impressione e, col passare del tempo, anche altri grandi film hanno avuto un impatto su di me; si sono succeduti uno dopo l'altro e sovrapposti nella mia memoria. È difficile individuare quale film mi abbia ispirato di più. Ho tratto innumerevoli lezioni dai film di tutto il mondo e sono arrivato a credere che non ci siano confini nella geografia della mente. Tutto sommato e considerato, per quanto parziale, scelgo L'ultimo imperatore, fotografato da Vittorio Storaro, come film d'ispirazione a metà della mia carriera. In un certo senso, è stato un libro di testo di fotografia e l'ho usato più tardi nelle mie lezioni di cinema. La sua illuminazione estetica e l'uso di speciali processi di laboratorio in alcune parti del film sapevano unire realismo e fantasia, portata storica e validità emotiva. All'interno del palazzo dell’Imperatrice, ad esempio, i raggi del sole filtravano solo attraverso finestre selezionate. Ma ai nostri occhi era una realtà accresciuta. L'esplorazione di Storaro nella luce e il colore delle immagini in movimento mi ha fatto tornare alla mente ciò che secoli fa i pittori praticavano e raggiungevano sulla tela. Il film mi ha spinto verso un nuovo orizzonte visivo.

L’ultimo imperatore, Bernardo Bertolucci, fotografia di Vittorio Storaro (1987)

L’ultimo imperatore, Bernardo Bertolucci, fotografia di Vittorio Storaro (1987)

Qual è la tua sequenza che più ricordi con piacere e che tipo di illuminazione hai realizzato?

C'è una sequenza di danza in The Rocketeer. Nel set del night club a due piani c'erano molti cambiamenti di luce. Grazie alle schede dimmer assistite dal computer, ho potuto ripetere il cambio di luce sincronizzato con la musica preregistrata. È importante sottolineare che volevo che lo spettatore non fosse distratto dai cambiamenti di luce come effetto, ma fosse assorbito nella continuità emotiva della scena. Mentre gli attori danzavano, volevo che fossero bellissimi sotto luci seducenti o seducenti sotto luci ingannevoli. A volte è necessaria una tecnica complessa per ottenere un aspetto semplice e apparentemente senza sforzo. Sono certo di aver tirato fuori dalla mia banca di memoria, in quell’occasione, le immagini da 8 ½, pensando che la continuità emotiva e la continuità visiva siano le due facce della stessa medaglia.

Quali cinematographers italiani, passati e presenti, ammiri di più?

Ci sono molti cinematographers straordinari in Italia, passati e presenti. Alcuni di loro hanno dato grandi contributi ai film americani e hanno ispirato gli studenti di cinematografia. Mi vengono subito in mente Giuseppe Rotunno e Vittorio Storaro. La comprensione della luce e del colore di Storaro ha ampliato il linguaggio visivo nel cinema, collegando ciò che si vede e ciò che si sente e raggiungendo direttamente le nostre emozioni. Un film come 8 1/2 di Fellini, fotografato da Gianni Di Venanzo, mi ha aperto gli occhi. La macchina da presa è viva; si muove insieme agli attori o intreccia le scene. La macchina da presa sembra un altro personaggio in scena o uno spettatore curioso, che porta il pubblico alla storia e viceversa. Dopo averlo visto diverse volte mi sono reso conto che c'era qualcosa al di fuori della logica e della narrazione lineare che si sentiva molto reale; uso soggettivamente la parola "reale". C’erano cambi di illuminazione nel mezzo di una scena o movimenti della camera che producevano sensazioni uniche: erano più che semplici carrellate accattivanti o ampie. Erano, credo, sensazioni amorfe che suscitavano, davano vita all'ethos dell'emozione, oltre i confini della geografia della mente.

Hiro Narita

Hiro Narita

Nuove tecnologie: cosa ne pensi del passaggio epocale dalla pellicola al digitale?

Ci sono stati molti ardenti discussioni e dibattiti sull'argomento. Nella mia vita, siamo passati dal bianco e nero, al negativo a colori e all'inversione, al magnetico e ora al supporto digitale. Il cinema, una sintesi di arte e tecnologia, si è evoluto dai film muti a quelli sonori: un cambiamento molto più grande nelle tecniche e nei processi rispetto al passaggio di oggi dai grani della pellicola ai pixel digitali. Non dobbiamo confondere i limiti e le potenzialità dei diversi media con la nostra cecità o visione. Vedo così tante potenzialità nel mezzo digitale, che apre la porta a uno spettro di colori espanso che, fino ad ora, era velato dalla nostra percezione condizionata o parziale. Spero che la nuova tecnologia ci aiuti a fondere la nostra esperienza visiva con quella emotiva, in un batter d'occhio. Mi sono tuffato nella cinematografia digitale vent'anni fa e la adoro.

Come descriveresti il ​​tuo stile cinematografico?

Preferirei dire che ho un "approccio" al mio lavoro, non necessariamente uno "stile". Un regista ha la sua visione o il suo concetto visivo, e il ruolo di un direttore della fotografia è collaborativo, per raggiungere e migliorare la sua visione. In tal modo la percezione personale e la comprensione della luce, dell'ombra e del colore del direttore della fotografia inevitabilmente vengono fuori, diventando una forma di espressione personale. Ma questa è modellata dalla comprensione della storia che si presenta davanti a lui. Alla fine, è la storia che indirizza lo stile visivo, credo. La direzione artistica, il montaggio e una miriade di complessità e limitazioni della produzione quotidiana sotto il controllo del regista contribuiscono al risultato. Facciamo tutti valutazioni precostituite, ma cerco di prenderle come punti di partenza, consentendo nel contempo la ricerca di nuove soluzioni. In questo senso, ho il mio approccio. A volte vengo lodato e a volte accusato del mio lavoro “camaleontico”. Tanti stili. Si dice che alcuni direttori della fotografia impongano il loro stile sui film che girano. Ma penso che il loro cosiddetto stile sia il risultato dell'esperienza di vita, del riconoscimento maturo della realtà, sia empirica che mentale.

Sei membro dell'ASC - American Society of Cinematographers, la più antica società cinematografica operante ininterrottamente al mondo: i cinematographers italiani Luciano Tovoli e Vittorio Storaro, membri AIC e ASC, sono tra i maggiori animatori della battaglia per il riconoscimento del diritto d’autore per i cinematographers. Cosa ne pensi del concetto di autorialità per la vostra categoria?

A volte mi sono accorto che il mio lavoro, nella forma distribuita, appariva diverso da quanto avevo firmato alla fine del processo di correzione colore, specialmente in DVD. Questo è un grande problema per cui lottare come direttori della fotografia e deve essere risolto. Nel trasferimento digitale, gli ingegneri hanno un grande controllo e possono influenzare moltissimo il risultato finale. La cinematografia è un'espressione personale, un'arte personale, e senza il consenso dell'autore il suo lavoro non dovrebbe essere alterato.

Quale modello di macchina da presa hai preferito nel corso della tua carriera?

Ho usato Panavision e Arriflex per i film, e camere Sony per la cinematografia digitale, a volte per mia scelta, spesso per ragioni di budget. Ho prestato maggiore attenzione alla scelta delle lenti.

C'è un aneddoto su un film che vuoi ricordare?

Vorrei parlare di un'esperienza unica: L'insostenibile leggerezza dell'essere, il film è stato diretto da Phil Kaufman e fotografato da Sven Nykvist. Dopo che l'unità principale in Europa fu completata, Kaufman aveva bisogno di un'unità statunitense per filmare le scene in una casa della California settentrionale con Lena Olin. Sebbene avessi familiarità con il lavoro di Nykvist, dovetti studiare la sua padronanza della luce, il suo uso sottile dell'atmosfera e dell'umore che creava. Forse mi ci sarebbe voluto del tempo per assorbirlo, ma ho cercato di emulare il suo lavoro a grandi linee, almeno ho provato a integrarlo nella tonalità del suo lavoro. Kaufman mi ha fatto un resoconto del lavoro di Nykvist; minimalista e inventivo. Sono stato anche affascinato dalla regia di Kaufman, almeno in questo segmento negli Stati Uniti. Come se scrivesse una nota sul personaggio di Olin o l'abbozzasse su un blocco di carta, studiò lo spazio e la luce prima di dedicarsi agli angoli di ripresa, alcuni dei quali sembravano spontanei e organici. Nella versione montata, mi sono reso conto che il ritmo della scena era in armonia con ciò che veniva prima e ciò che veniva dopo. Alcune riprese non sono mai entrate nel film, eppure ho apprezzato che i frammenti potessero articolarsi di più se visti nel contesto dell'insieme.

L’insostenibile leggerezza dell’essere, Philip Kaufman, fotografia di Sven Nykvist (1988)

L’insostenibile leggerezza dell’essere, Philip Kaufman, fotografia di Sven Nykvist (1988)

Cosa ci puoi dire del tuo ultimo lavoro Love Is Love Is Love (2020), film drammatico americano diretto da Eleanor Coppola, in cui hai fotografato il segmento Late Lunch?

Late Lunch è un trittico in Love is Love is Love, scritto da diretto da Eleanor Coppola: un dramma, ma, come ha spiegato Eleanor, con un sapore documentaristico. Nella storia dieci donne siedono attorno a un lungo tavolo da pranzo ricordando, in un pomeriggio, un amico comune recentemente scomparso. Filmando per otto giorni in una location di San Francisco si sono posti ostacoli logistici e tecnici: mantenere l’aspetto coerente di "un pomeriggio" ‒ uniformità visiva e valore estetico ‒ mentre il cambiamento della luce solare e il tempo variabile complicavano le impostazioni di illuminazione. Attingendo alle nostre esperienze nei film-documentari, io e il mio gaffer abbiamo progettato uno schema di illuminazione gestibile e flessibile con piccoli HMI, che potevano essere alimentati dall'elettricità della casa (era un prerequisito). Creare un effetto di luce solare costante escludendo il sole reale è stata la nostra soluzione. Per gli interni, ho ridotto al minimo l'illuminazione dal pavimento perché volevo che gli attori si sentissero liberi. Volevo che si sentissero in un vero pranzo. Per mantenere l'atmosfera della stanza, abbiamo appeso dei tubi Kino Flo con diffusori sulle finestre rivolte a sud, e li abbiamo lasciati nella stessa posizione per tutta la durata delle riprese. Grazie alla fotografia digitale 4K, siamo stati in grado di filmare in condizioni di luce relativamente scarsa, senza sacrificare la qualità. Eleanor Coppola è una regista molto esperta sia nel genere narrativo che nel documentario; è anche una fotografa e artista di talento. Mi ricordava spesso che Late Lunch doveva essere avvolto nello spirito di una vera atmosfera e di un momento unico. Le riprese ampie e i dettagli fluidi hanno creato un ritmo visivo ed emotivo e mi assicurai di fornire al montatore le scelte per creare quel ritmo nella post produzione. Concettualmente, la macchina da presa doveva diventare un partecipante discreto al pranzo e un osservatore della storia. Durante la pre-produzione, mentre riflettevo con Eleanor sulle strategie di ripresa, ho sentito fortemente il bisogno di un altro sguardo sul set, non solo per poter meglio soddisfare il programma giornaliero, ma proprio per aggiungere la prospettiva visiva di un altro direttore della fotografia. Ho reclutato una cameraman, Dyanna Taylor, che era anche lei regista e direttore della fotografa di molti film documentari. In un certo senso, stavo cercando qualcosa di meno artificioso, ma sottile, dalle immagini dalla seconda camera. Nell’impostazione di ogni scena avremmo prima determinato la posizione della camera "A", in modo consapevole, e avremmo lasciato alla camera "B" uno spazio di libertà di angoli di ripresa, in concerto con la scena. E ogni volta che lo spazio lo consentiva, abbiamo utilizzato i dispositivi di scorrimento della camera per facilitare la regolazione della composizione mentre le camere ruotavano, aggiungendo un senso di spontaneità. In questo progetto le caratteristiche uniche e l'atmosfera dell’ambientazione, forse a causa dei limiti che avevamo, ci hanno motivato a esplorare immagini sconosciute, che, volte, stentiamo a riconoscere. In un film realtà e finzione si intersecano, il confine è sfumato nella nostra percezione. Late Lunch ha sfidato la mia cinematografia, e la mia psiche anche, a collegare le due sfere, che si rispecchiano l’una nell’altra.

Love Is Love Is Love, Eleanor Coppola (2020). Foto Kalman Muller

Love Is Love Is Love, Eleanor Coppola (2020). Foto Kalman Muller


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