La luce è invisibile. Vediamo solo la luce riflessa dal mondo. Conversazione con Christian Berger

Christian Berger (AAC, BVK), austriaco, membro onorario dell'AIP, è cinematographer, regista, sceneggiatore e produttore di numerosi documentari, film per la tv e lungometraggi. Come cinematographer ha lavorato, tra i tanti, per registi quali Michael Haneke, Amos Gitai, János Szász, Angelina Jolie, Terrence Malick. Nel 2010 è stato nominato al premio Oscar per la migliore fotografia per Il nastro bianco, diretto da Michael Haneke, e ha vinto l’ASC Award per la migliore fotografia per lo stesso film. Berger ha sviluppato il sistema “Cine Reflect Lighting System” (CRLS) in collaborazione con Bartenbach Lichtlabor: oltre a creare nuove possibilità estetiche per la camera, questo sistema offre ad attori e registi una flessibilità e una libertà senza precedenti. È sposato con l'attrice Marika Green ed è zio di Eva Green.

read in English


Cosa ha suscitato in te l’interesse per la fotografia?

In realtà non lo so esattamente. Già a sette anni, a Natale, ricevetti la mia prima macchina fotografica, una sorta di macchina click-clack di Agfa. La vigilia stessa di Natale ho inserito la pellicola e ho fatto scatti completamente sottoesposti (probabilmente 25 ASA in quel momento). Poi di nascosto, in bagno, volevo guardare dove fossero le foto, ho tirato fuori la pellicola e ho guardato intensamente per cercare dove fossero andate le foto. Non sono riuscito a scoprire nulla, ho visto solo una striscia di pellicola con uno strato di emulsione brunastra e fori di perforazione sul bordo, ma il mio interesse e la mia curiosità molto pronunciata erano venuti alla luce... Dovevo imparare nel modo più duro: era la prima lezione.

Christian Berger con una camera 16 mm Arri St

Christian Berger con una camera 16 mm Arri St

Nella tua formazione artistica quale film del passato ti ha colpito di più dal punto di vista della fotografia?

Non credo si sia trattato di un singolo film, è stata piuttosto la stessa forma d'arte del cinema che ha avuto impatto sulla mia giovinezza. Mi ha fatto lo stesso effetto della musica, ma dal punto di vista visivo. L'astrazione del bianco e nero, l'estetica della luce e delle ombre, delle forme, la fugacità del tempo e la velocità hanno nutrito la mia voglia di osservare. Soprattutto la Nouvelle Vague francese mi ha affascinato – stava rinnovando radicalmente il "vecchio cinema" degli anni '50 e '60 –, ma trovare il mio posto nel mondo del cinema mi sembrava impossibile. Semplicemente non c'era un circuito di cui trattare. Non solo le città erano in rovina, ma anche ogni paesaggio culturale giaceva a terra, soprattutto nelle aree di lingua tedesca...

Come sei diventato un cinematographer?

Per me una macchina da presa significava cinema e, viceversa, cinema significava una macchina da presa. Non era letteratura, non era teatro, erano immagini... Non ero ancora un cinematographer, ma ero convinto che lo sarei diventato anche se non avevo idea del come e quando. Vivevo in Tirolo e lì, dopo la guerra, non c'era quasi nulla che avesse a che fare con i film. Lo stesso in Austria o in Germania, a quel tempo, con pochissime eccezioni, a cui non si riusciva ad arrivare. Dopo la mia furiosa partenza dalle scuole del Tirolo, da giovane studente che ero ‒ in quel momento la scelta era tra insegnanti cattolici militanti o ex nazisti ‒ ho iniziato un apprendistato come tecnico delle luci. Era un ufficio di progettazione illuminotecnica a Innsbruck con e per architetti – e si trattava di illuminare nuovi edifici, supermercati, uffici di ospedali o anche illuminazione stradale o stadi sportivi, ecc… Ma volevo solo fare cinema. A quel tempo, ovviamente, il legame tra macchina da presa e luce e l’importanza della luce non mi erano ancora chiari. Poi trovai lavoro come assistente alla macchina in uno studio cinematografico a Linz. Dopo un anno ero forse riuscito ad accendere una macchina da presa un paio di volte; feci piuttosto molte pulizie: di cavi, treppiedi, faretti e ovviamente delle macchine. Una volta usai la camera su un tavolo di animazione, cioè filmai fotogramma per fotogramma, 24 fotogrammi al secondo, un film d'animazione con un regista polacco. Non aveva i soldi per pagarmi e mi offrì in pagamento la sua Pentaflex 16

Christian Berger, giovanissimo, con una camera 16 mm Bolex Paillard

Christian Berger, giovanissimo, con una camera 16 mm Bolex Paillard

Christian Berger con una camera Moviecam

Christian Berger con una camera Moviecam

con 3 obiettivi Zeiss super originali. Ma valeva più del mio lavoro: dovetti pagare qualcosa in più chiedendo aiuto a mio padre... La sera facevo il proiezionista in un cinema d'essai. Non ero un bravo proiezionista perché preferivo guardare i film attraverso le piccole finestre di proiezione. Fino a quando non mi sono accorto che la lampada ad arco di carbonio del proiettore bruciava o trascurai di cambiare la bobina... Quell’anno fu una sorta di tirocinio cinematografico. Ero quasi un cameraman! Tornato in Tirolo nel 1968, nello studio regionale dell'ORF, mi fu assegnato un nuovo incarico come cameraman di notizie per le trasmissioni locali. Il regista mi aveva chiesto: puoi filmare e fare anche lavori giornalistici? Ovviamente risposi di sì e mi lanciai nell’avventura. Dopo tre anni ho potuto mettere in piedi la mia prima piccola produzione cinematografica e dopo dieci anni sono arrivato, con due team, a realizzare più di 3000 reportage, riviste, documentari e con i soldi che mi rimanevano potevo realizzare i miei cortometraggi indipendenti. Non mi pento di questo "apprendistato", anche se questo modo di girare non era all'altezza dei miei sogni. Ma avevo quasi ogni giorno nelle mie mani le mie Pentaflex, Arriflex BL16, CinemaProduct 16 e infine la mia prima Aaton S16: se non diventi cinico o alcolizzato, puoi imparare e vedere molto. Poi sono andato avanti con il lavoro per l'Austrian Broadcasting

Christian Berger con una camera 16mm Aaton

Christian Berger con una camera 16mm Aaton

Corporation (ORF), le stazioni televisive tedesche con fiction televisive e documentari e, nel 1983, ho potuto realizzare il mio primo lungometraggio, Raffl, con collaboratori molto dediti e preparati. Non mi sarei mai aspettato quanto questo film sarebbe stato notato a livello internazionale. Ho capito, per la prima volta, quanto sia importante nella nostra professione guardare il più da vicino possibile, osservare. Quando c’è grande precisione nelle piccole cose, si svelano quelle grandi. Per questo ci vuole precisione, perseveranza e pazienza; credo davvero che senza queste qualità non ci sia arte. Anche se una grande precisione comporta il rischio di diventare inflessibili e chiusi. Sono davvero grato all'esperienza fatta con i documentari; è stata una scuola eccellente per me. Non potrei immaginare il mio lavoro in seguito, nei lungometraggi, o il lavoro in studio e con gli attori, o anche il lavoro con la luce senza queste esperienze. Sono riuscito poi a realizzare altri due miei lungometraggi, Hanna Monster, Darling (1988) e Tollgate (1993). Realizzare i miei film anche come regista e produttore non è mai stato davvero il mio obiettivo: gli anni in cui ho lottato per scrivere e finanziare i miei progetti mi hanno stancato molto e l'immagine (la macchina da presa) era comunque più importante per me. Quindi in seguito ho deciso di dedicarmi di più all'immagine e alla luce.

Cosa puoi dirmi della tua collaborazione con Michael Haneke? Con lui hai preso parte a diversi film come Benny's Video (1992), 71 Fragmente einer Chronologie des Zufalls (1994), La pianista (2001), Niente da nascondere (2005), Il nastro bianco (2009), Happy End (2017).

Christian Berger con il regista Michael Haneke sul set di Happy End (2017)

Christian Berger con il regista Michael Haneke sul set di Happy End (2017)

A Michael Haneke piacque il mio film Raffl, e probabilmente per questo avrebbe voluto fare il suo primo lungometraggio con me (Il settimo continente) ma ero impegnato con Hanna Monster, Darling e così la prima collaborazione è nata con Benny's Video. In totale abbiamo lavorato insieme per sei dei suoi film. Mi dispiace che la collaborazione per Storie non sia andata a buon fine, perché apprezzo molto quel film. E Jürgen Jürges ha fatto un ottimo lavoro. Mi piace la precisione ossessiva di Michael. Conoscendomi, non è stato sempre facile lavorare con lui (o per lui lavorare con me). Ma rispetto e apprezzo molto il risultato di questa collaborazione.

Christian Berger con Micheal Haneke sul set de La pianista (2001)

Christian Berger con Micheal Haneke sul set de La pianista (2001)

Il nastro bianco in particolare, fotografato in un magnifico bianco e nero, rappresenta forse il punto più alto della vostra collaborazione. Con questo film sei stato nominato all’Oscar per la miglior cinematografia e premiato dall’American Society of Cinematographers (ASC). Tra l’altro, il film conquistò la Palma d’oro al 62nd Festival di Cannes. Cosa puoi dirmi riguardo le scelte stilistiche e fotografiche di questo lavoro?

Il nastro bianco (Michael Haneke, 2009)

Il nastro bianco (Michael Haneke, 2009)

Spero di non interpretare nulla qui che Michael possa vedere, a posteriori, in modo diverso. Ovviamente abbiamo guardato le foto di quel periodo (l'inizio della Prima Guerra Mondiale) e ovviamente erano foto solo in bianco e nero. Ma non è la cosa principale. Per il mio lavoro con la macchina da presa è stato importante non avere nostalgia del bianco e nero, per così dire. Dopotutto, la storia di questo film è stata così efficace per il presente, attraverso lo stile rigoroso e la firma di Haneke, ed è stata intesa come rivolta anche al presente. Ho cercato di modernizzare attraverso il design della luce e la trama del bianco e nero, per renderlo attuale, ammesso che si possa dire una cosa del genere... A proposito delle inquadrature ‒ anche in questo film – abbiamo avuto rare conversazioni e poche, necessarie, discussioni; prima di tutto perché Michael ha le idee molto chiare, e in secondo luogo perché io ho idee o preferenze molto simili, che si tratti di dettagli dell'immagine o di movimenti ‒ sull'intero piano di ripresa. A parte questo, mi piace molto la chiarezza e la concentrazione di Michael, che fa la shot-list in anticipo per evidenziare il necessario e mi dà gli spunti migliori per disegnare le atmosfere di una scena. Questo rende molto efficiente la pianificazione delle riprese per tutta la troupe e chiare le dimensioni dell'impegno per l'organizzazione della produzione. Non potrebbe esserci modo migliore per garantire il risultato in relazione alla sceneggiatura e alle intenzioni di Michael.

È vero che tutte le scene sono state originariamente girate a colori e poi trasferite in bianco e nero?

Il nastro bianco (Michael Haneke, 2009)

Il nastro bianco (Michael Haneke, 2009)

nastro 2.jpg
nastro 3.jpg

Per noi era chiaro sin dall'inizio che senza alcun dubbio avremmo girato in B/N ma c'era la questione della partecipazione alla produzione di una stazione televisiva che era contraria alla produzione in B/N, e in tal caso ci avrebbe abbandonato. Quindi siamo stati obbligati a fornire almeno una versione a colori per la messa in onda. Questo mi ha causato qualche difficoltà durante le riprese, soprattutto con le temperature colore della luce mista di giorno e notte ma anche con le lampadine, gli HMI, il tungsteno, le lampade a cherosene, le torce e il fuoco. Dopo molti test e con i migliori materiali negativi Kodak (era il 2008), abbiamo visto che l'ampio e ricco spazio colore del negativo consentiva, nel trasferimento in bianco e nero, una scala di grigi molto più ricca di quella dell'originale B/N. Abbiamo pensato e testato solo in bianco e nero... Ripensandoci, la stazione televisiva non ha mai chiesto una versione a colori: che coraggio! A parte questo, Il nastro bianco è stato l'ultimo lavoro analogico per me e l'ultimo lavoro in cui sono stato in macchina in prima persona. Questo mi rende ancora un po' orgoglioso. Anche se nessuno di noi poteva prevedere il grande successo che il film avrebbe ottenuto. In realtà, in ogni lavoro importante, durante le riprese di una scena o di un'altra, sai… “Ah, questo è un capolavoro!” È percepibile, ma prima non sai mai se si tratti dell'intero film o di come verrà recepito...

Il Cine Reflect Lighting System per Happy End (Michael Haneke, 2017)

Il Cine Reflect Lighting System per Happy End (Michael Haneke, 2017)

Prima di iniziare le riprese, hai studiato i film in bianco e nero che Ingmar Bergman ha realizzato con il grande cinematographer Sven Nykvist?

Non ho dovuto studiare nulla: il suo lavoro in bianco e nero mi è stato immediatamente presente, anche durante la lettura della sceneggiatura. Era quasi un idolo per me durante la mia giovinezza: ha trovato e realizzato immagini davvero meravigliose e la maestria del suo “mestiere” mi ha sempre impressionato profondamente. Penso che la sua comprensione della luce, della sensibilità degli attori e del potere di creare atmosfere siano state certamente formative per me. E poi la riduzione… l'omissione di tutto ciò che è superfluo: la semplicità è maestria!

Cosa ci puoi dire di Disengagement (2007), film diretto da Amos Gitai, con Juliette Binoche, e con Jeanne Moreau in un ruolo secondario?

Christian Berger sul set di Disengagement, con il regista Amos Gitai e Juliette Binoche (2007)

Christian Berger sul set di Disengagement, con il regista Amos Gitai e Juliette Binoche (2007)

Che differenza nel lavorare con Amos Gitai dopo la mia esperienza con Michael Haneke! 180 gradi! Con Michael tutto è pre-pianificato e prevedibile, con Amos succede completamente l’opposto! L’accuratezza e la precisione Amos le colloca nell'evitare la pianificazione, evitare le prove e quindi sorprendere gli attori e tutti noi ‒ l'intera troupe e forse anche sé stesso. Sono arrivato ad apprezzare il suo forte, fortissimo “istinto” nell’usare questo metodo per esplorare e testare il pieno potenziale di una scena, degli attori. Per Juliette Binoche è stato possibile solo perché lo conosceva ed è stata coinvolta fin dall'inizio: mentre la camera girava Amos le diceva con il megafono, tra una battuta e l’altra, “non andare alla finestra, vai alla porta, tralascia la prossima frase” e così via. E anche per me è stato così: a tratti lavoravo nelle normali condizioni di un lungometraggio di fiction, a tratti, improvvisamente, dovevo comportarmi, in autonomia, come in un documentario. Non sapevo mai cosa sarebbe successo nel momento successivo, perché all'improvviso le posizioni cambiavano di quasi 360°, tranne i pochi inevitabili gradi necessari per la camera, e mi ritrovavo Amos con il megafono dietro la schiena. Dovevo “anticipare” quello che Juliette avrebbe fatto e questo spesso mi “costringeva” a convertire azioni inaspettate in movimenti fluidi della camera, ma non con una camera a mano, proprio con il dolly! La luce nelle stanze quindi doveva coprire quasi tutte le direzioni. È stato davvero emozionante e spesso davvero bello. È stato come danzare, e ha servito la storia e aiutato gli

Chstian Berger e Juliette Binoche sul set di Disengagement (Amos Gitai, 2007)

Chstian Berger e Juliette Binoche sul set di Disengagement (Amos Gitai, 2007)

attori. È stato interessante e piacevole lavorare in questo modo e, in certi momenti, molto divertente per tutte le persone coinvolte. Il finale per esempio si è svolto in questo modo: mentre giravamo la scena finale come era stata preparata, con Juliette che esce dall'inquadratura lasciando vuoto lo sfondo su cui poi doveva apparire la didascalia finale, Amos all'improvviso chiama Juliette attraverso il suo megafono... “Torna nell'inquadratura! torna indietro!” e Juliette è tornata. All'improvviso si è creato un finale incredibilmente emozionante per l'intero film; anche il suo partner, che davvero aveva già finito tutto, è stato coinvolto di nuovo. Sono stato felice di aver iniziato questa ripresa con un nuovo caricatore, e ho tremato fino allo scadere dell'ultimo metro, che era davvero l'ultimo metro...
Ho un altro piccolo aneddoto: la prima volta che ho incontrato Jeanne Moreau sul set sono quasi arrossito. Le ho detto: “Sai, da giovane, quando ti ho visto per la prima volta in Moderato cantabile, un film di Peter Brook, mi è stato subito chiaro che dovevo trovare un modo per entrare nel mondo del cinema. Immagino di essermi un po' innamorato di te...”. Lei, dopo una piccola pausa, mi ha risposto: “E ora non più?”. Insomma… è stato molto bello girare con Amos Gitai e sono stato orgoglioso che il mio Cine Reflect Lighting System, sebbene fosse ancora un prototipo, abbia reso possibile questo tipo di riprese.

By the Sea (2015) è un film drammatico scritto e diretto da Angelina Jolie Pitt, e prodotto e interpretato da Jolie Pitt e Brad Pitt. Quali sono state le principali richieste della regista dal punto di vista fotografico?

Christian Berger sul set di By the Sea, scritto e diretto da Angelina Jolie (2015)

Christian Berger sul set di By the Sea, scritto e diretto da Angelina Jolie (2015)

Una richiesta era restituire correttamente lo spirito degli anni '70 nel sud della Francia. Riprodurre l'atmosfera di quel tempo era essenziale, ed è così che siamo arrivati ​​a fare riferimento alla Nouvelle Vague, che era stata molto importante per me durante la mia giovinezza. Era un misto di umorismo e tristesse. Per me non sono necessarie giornate autunnali e piovose per una scena triste, così come anche in un angolo buio ci può essere una scena molto divertente.

Quali registi di quell'epoca ti hanno influenzato, nella Nouvelle Vague e dintorni?

Mi sono particolarmente piaciuti Jean-Luc Godard e la maggior parte dei registi francesi, Ingmar Bergman, senza dimenticare Roberto Rossellini del Neorealismo italiano, tra gli altri.

Perché credi che Angelina Jolie Pitt e Brad Pitt ti abbiano scelto per questo progetto?

Credo che mi abbiano scelto per il mio sistema di illuminazione Cine Reflect. Ed è stata una cosa molto bella per me, perché è un nuovo modo di pensare l'illuminazione. È proprio questo che è importante, il fatto che cambi il modo in cui si può illuminare un set; si tratta di molto di più che di un nuovo dispositivo tecnico.

Il Cine Reflect Lighting System per By the Sea (2015)

Il Cine Reflect Lighting System per By the Sea (2015)

Quando hai inventato questo rivoluzionario sistema di illuminazione, noto, in breve, come CRLS?

Ho iniziato a usarlo nel 2001 con La pianista di Michael Haneke, e da allora l'ho usato in tutti i miei film, sviluppandolo passo dopo passo.

Quali sono le sue caratteristiche?

In primo luogo, ti consente di avvicinarti alla bellezza della luce naturale, poi ti consente di creare uno spazio sicuro per gli attori e anche per i registi, riducendo il disordine tecnico sul set, cosa che è stata molto utile in By the Sea. Il mio gaffer Jakob Ballinger ha appena creato un sito web per cinematographers e gaffer per istruirli e coinvolgerli con l'ulteriore sviluppo del CRLS:  www.thelightbridge.com

Si basa sull'osservazione della luce naturale, dunque?

Sì, osservo la luce naturale nel modo più preciso e paziente possibile, perché la luce ha ancora i suoi segreti ed è ancora il miglior insegnante da cui imparare. L'osservazione rivela le atmosfere più ricche e più belle che possiamo conoscere. La natura non usa mai lampade. C'è una sola fonte principale, il sole. La luce stessa è invisibile. Vediamo solo la luce riflessa, modellata e formata dalle superfici che sono, per così dire, “ostacoli sulla via” della luce. Quindi qualsiasi tipo di superficie ‒ un paesaggio, un pavimento in legno o un volto umano ‒ definisce l'aspetto della luce per i nostri occhi. Devo solo dare alla luce la possibilità di fare ciò che sa fare meglio: evocare i valori emotivi che servono la percezione umana.

Il Cine Reflect Lighting System per By the Sea (2015)

Il Cine Reflect Lighting System per By the Sea (2015)

Come hai ottenuto questo risultato in By the Sea?

Ho usato una lampada con fasci di luce paralleli, più vicina possibile alla qualità della luce diurna, e un set di riflettori high-tech per modulare e direzionare la luce come e dove volevo averla. Con l'illuminazione convenzionale si percepiscono le diverse sorgenti, con la sensazione che ci sia una lampada accesa su qualcosa. Preferisco che la persona brilli di luce propria, come nei quadri migliori. E penso che i pittori abbiano fatto proprio questo: hanno osservato come si comporta la luce naturale e l'hanno usata per realizzare le loro visioni artistiche. Oltre a questa particolarità ‒ io la chiama “qualità della luce trasparente” ‒ il CRLS cambia il metodo di lavoro. Avevamo un set libero e ordinato. Ad esempio, nella camera d'albergo dove si svolge gran parte della storia, non c'erano cavi, supporti, bandiere o filtri.

In che modo questo semplifica il lavoro degli attori sul set?

Per prima cosa, significa aspettare che gli attori siano pronti, piuttosto che gli attori aspettino la troupe, che è quello che succede su tanti altri set... In secondo luogo, e questo ha reso Angelina e Brad molto felici, significa che gli attori possono muoversi dove vogliono, guadagnando quello “spazio immaginario” a cui fanno riferimento. È così importante per loro! Non è stimolante per gli attori essere circondati da apparecchiature elettriche e tecnici mentre cercano di dire: "Ti amo". "Quando giravamo le scene", dice Jolie Pitt, "non avevamo grandi configurazioni di illuminazione per i primi piani". "Noi sperimentiamo e recitiamo", aggiunge Pitt, "ed è stranamente un ambiente più sicuro di qualsiasi altro set in cui sono stato prima. In questo modo ci siamo lasciati andare!". (Citazioni dal backstage realizzato dalla rivista «Vogue»).

Il Cine Reflect Lighting System per By the Sea (2015)

Il Cine Reflect Lighting System per By the Sea (2015)

By the Sea è stato girato sull'isola di Gozo, a Malta. In quali condizioni giravate?

Sì a Gozo. Lo scenografo Jon Hutman ha dovuto costruire un hotel e un caffè in una baia vuota. Abbiamo avuto un interessante mix di situazioni in studio e sul posto, che ha portato a molte difficoltà per le luci. Per me è stato una sorta di “studio con ghiaccio". Non faceva solo caldo a Malta, la maggior parte del tempo la luce del sole era molto dura. Il mio gaffer Jakob Ballinger ha creato un “rig” unico per il CRLS che ci ha permesso di cambiare rapidamente le atmosfere richieste dal giorno alla notte e dalla notte al giorno. Anche in una giornata piovosa avremmo potuto mantenere il "sole" stabile o fare una giornata nuvolosa, se necessario. E avremmo potuto mantenere sempre una visione libera del mare o delle colline rocciose attraverso le finestre del set. Nonostante l'isolamento della location, c’era un ambiente di produzione molto professionale. Devo complimentarmi non solo con il mio team, ma anche con la troupe di produzione perché erano molto bravi ed efficienti.

E per quanto riguarda le riprese esterne?

Ho amato la struttura orizzontale nella natura che ci circondava, come l'orizzonte del mare o la struttura della costa, che è stata una delle ragioni per le riprese in Cinemascope. Le situazioni più difficili erano quelle in cui dovevamo fare riprese notturne su tutta la baia, inclusi l'hotel e il bar.

By the Sea, scritto e diretto da Angiolina Jolie (2015)

By the Sea, scritto e diretto da Angiolina Jolie (2015)

Quali sono le principali qualità di Angelina Jolie Pitt come regista?

Angelina è molto affettuosa, schietta e concentrata. Rispetto e mi piacciono la sua intelligenza veloce, la sua famelica curiosità e la totale devozione per ogni scena, insomma la sua incredibile energia. È sempre aperta e collaborativa, mentre cerca la migliore soluzione a qualsiasi problema. Sono stato anche colpito dal suo modo unico di raccontare una storia.

E come attrice? Nel film interpreta il ruolo di Vanessa.

Angelina è stata professionale e coraggiosa nel mettersi in gioco anche come attrice. Ha corso il rischio e si è concentrata per rendere ogni scena al meglio. Ho fatto del mio meglio per semplificarle la vita riguardo ai suoi molteplici ruoli: autrice, regista e attrice.

Come è stato sul set Brad Pitt, che è suo marito Roland nel film?

Brad rispettava Angie come regista e si concentrava sulla recitazione. Il suo atteggiamento era: "Sono il tuo attore, quindi dimmi cosa fare!". Ha una grande etica del lavoro ed è così divertente stare con lui. Mi ha sorpreso con il suo talento comico.

Hai collaborato con Jolie Pitt anche per uno spot pubblicitario diretto da Terrence Malick. Cosa ricordi della tua collaborazione con un grande regista come Malick?

Spot Guerlain diretto da Terrence Malick. Testimonial Angelina Jolie, fotografia Christian Berger

Spot Guerlain diretto da Terrence Malick. Testimonial Angelina Jolie, fotografia Christian Berger

Devo confessare che ero lusingato, mi ha fatto piacere che Angelina mi volesse per questa campagna di Guerlain e con Malick non avevo avuto alcun contatto personale fino ad allora. Abbiamo poi avuto un incontro telefonico pochi giorni prima delle riprese e l’ho trovato molto comprensivo. Gli ho detto che fino a quel momento non avevo avuto esperienze con la pubblicità e lui mi rispose: “Nessun problema, è lo stesso per me...”. Ovviamente c'era una sorta di sceneggiatura e uno storyboard, ma quando abbiamo iniziato a girare Malick è "esploso": “Il mio bravissimo operatore steadycam, Alex Brambilla di Roma, un vero animale da macchina da presa, è davvero frastornato dopo una lunga giornata...”. Il secondo giorno stessa cosa e c’erano quasi venti ore di materiale! Una simile quantità di girato era nuova anche per me! Inoltre Malick è un fan degli obiettivi grandangolari, e io no, ma siamo andati d'accordo, ha osservato la mia luce con grande curiosità e gli piaceva divertirsi con i piccoli riflettori CRLS. Bellissimo vedere un regista che gioca in prima persona con la luce!

Ma anche tu sei un regista. Cosa ti piace di più della regia di un film?

Per i miei tre lungometraggi non sono mai stato dell'opinione che dovevo e potevo fare tutto da solo. Fondamentalmente ciascun ruolo è a scapito dell'altro, infatti, nel mio caso, finiva così perché non trovavo nessuno per la scrittura e la regia che avrebbe corrisposto alle mie intenzioni o visioni. In realtà trovare qualcuno mi avrebbe effettivamente sollevato. Ero anche produttore, e dovevo ovviamente confidare in un responsabile di produzione. Forse sono sempre stato troppo dominante sull'immagine. Dopo queste esperienze ho trovato meglio concentrarmi maggiormente sull'immagine e sulla luce. Inoltre, avevo ancora abbastanza lavoro da regista per i documentari. E lì è ovvio e conveniente pensare e lavorare in maniera personale. Oggi ho imparato molto e sono più vicino alla comprensione del lavoro e degli sforzi di un regista. D’altra parte il lavoro alla cinepresa è quello dell'ostetrica, come non farlo?

Il set di Raffl, regia di Christian Berger (1984)

Il set di Raffl, regia di Christian Berger (1984)

Marika Green in Hanna Monster, Darling di Christian Berger (1988)

Marika Green in Hanna Monster, Darling di Christian Berger (1988)

Marika Green in Hanna Monster, Darling di Christian Berger (1988)

Marika Green in Hanna Monster, Darling di Christian Berger (1988)

Tornando al Cine Reflect Lighting System che hai sviluppato in collaborazione con Christian Bartenbach. Puoi dire più esattamente ai nostri lettori di cosa si tratta?

La bellezza della luce naturale è sempre stata qualcosa di impressionante ed eccitante per me. Fin dall'inizio della mia carriera come cinematographer, è sempre stato mio obiettivo proteggere e raggiungere questa particolare qualità nel mio lavoro. Non è cosa semplice con l'illuminazione convenzionale. Ho sempre desiderato che l'attore “si accendesse”, che si accendesse un volto o un paesaggio, non una lampada. La bellezza della luce naturale è costituita da oggetti e superfici che riflettono la luce, sono loro che definisco le atmosfere, non la sorgente. La luce stessa è invisibile, puoi vederla solo se c'è qualcosa sulla sua strada. Posiziona un luxmetro nello spazio ‒ nell'oscurità più profonda che conosciamo ‒ e ti mostrerà circa 100.000 Lux, perché il tuo strumento è colpito dalla luce. La luce riflessa non è una novità per l'industria cinematografica, ci sono sempre molte superfici riflettenti, che si tratti di un muro bianco, un albero verde o un terreno sabbioso, e da sempre utilizziamo riflettori per illuminare le ombre e così via. Ma quando ho scoperto la tecnologia di illuminazione che Christian Bartenbach ha sviluppato nel suo laboratorio per reindirizzare la luce,

Christian Berger e Christian Bartenbach

Christian Berger e Christian Bartenbach

ad esempio, su grandi edifici o sottoterra, ho capito come l'industria cinematografica potesse trarre vantaggio da questa conoscenza. Ispirato da questo, ho iniziato a giocare con soluzioni luminose appositamente costruite per i film su cui stavo lavorando. Abbandonando lentamente il sentiero battuto delle soluzioni di illuminazione standard, mi sono reso conto di quante persone, in diverse professioni, trovano ottime soluzioni per padroneggiare difficili problemi di luce. Tornando alla buona vecchia regola dell'“osservare la natura” ho cercato di individuare il percorso di un singolo fascio luminoso per scoprire il “comportamento” della luce in generale. Così dopo un po' ho capito che è molto meglio fluire con la luce invece di forzarla con le mie ostinate intenzioni. Improvvisamente ho raggiunto immagini molto organiche e ricche, con un'elevata trasparenza, adatta a supportare la nostra percezione e a farci sentire lo spazio. Nessuna sbavatura, morbida, ma un pugno! Dirigendo la luce in modo molto preciso lì dove voglio averla, sotto completo controllo. È nato così il Cine Reflect Lighting System. A quel tempo non avevo idea di quanti alti e bassi e quanti anni ci sarebbero voluti prima di poter servire il set più piccolo così come un grande studio. Insieme al mio gaffer Jakob Ballinger siamo orgogliosi di presentare un sistema di illuminazione molto preciso e "adatto al set". Ora abbiamo finalmente un sistema nelle nostre mani che vale la pena condividere con i miei colleghi.

Puoi descrivere il tuo processo creativo nell’illuminazione di una scena?

La cosa più difficile per illuminare bene una scena è avere in mente la visione chiara del risultato e l'aspetto della scena finita... Il passo successivo è trovare il modo più semplice per attuarla e solo allora capire con quali strumenti tecnici... D’altra parte trovo molto eccitante osare, oltrepassare i limiti, quindi trovo molto più difficile "illuminare" l'oscurità. Rendere “chiaro” è perlopiù semplice… Mi è capitato spesso di finire in un vicolo cieco: la soluzione di solito si trova, bisogna solo ricominciare da capo. Tornare a zero e illuminare da capo. Correggere migliorando qualcosa qui e là di solito porta solo ad un pasticcio ‒ la correzione di solito peggiora le cose. Ho imparato che l’approccio migliore sta nell'adeguatezza dello sforzo al compito da svolgere, e può essere complesso e complicato o molto semplice. E mai dire “lo so già” o “l'ho già fatto molte volte”. Non va bene.

Christian Berger sul set di Disengagement con una camera Arricam (2007)

Nuove tecnologie: cosa ne pensi del passaggio epocale dalla pellicola al digitale?

Grazie a Dio questa questione è finalmente risolta. Le infinite discussioni e dispute quasi religiose su analogico/digitale hanno dato molto ma a un certo punto sono diventate degli steccati, steccati che sorgono sempre quando una tecnologia ne sostituisce un'altra e ne nascono o un rifiuto fondamentalista o una idealizzazione. Ho avuto brutte esperienze con le camere digitali per Niente da nascondere (2004) e le riprese sono state un inferno. Le promesse di questa tecnologia ci hanno fatto mentire all'azzurro del cielo. "Il futuro è adesso" tra l'altro è qualcosa che ho sempre sentito per trenta anni e che davvero non voglio sentire più. Quelle camere erano lontane da qualsiasi standard professionale, e non solo la camera in sé ma anche l'intera infrastruttura per la produzione cinematografica: porcheria. L'intero team, ma anche la produzione, ha in seguito dichiarato “mai più”, finché non ci fossero stati sviluppi sostanziali. Penso che a partire dal 2010 e con l’Alexa ci siano state buone basi per soddisfare le esigenze cinematografiche, e oggi sono soddisfatto di possibilità tecniche con una qualità che potevo solo sognare all’epoca analogica, che spesso ora è idealizzata nostalgicamente. Andare in giro con le mie piccole Fuji e compiacermi della facilità e delle giocose possibilità di realizzare nuove forme cinematografiche sia nella fiction che nel documentario, e questo può aprire nuove porte...

Christian Berger sul ,set di Ludwig II (Marie Noëlle e Peter Sehr, 2012)

Christian Berger sul ,set di Ludwig II (Marie Noëlle e Peter Sehr, 2012)

Nel corso della tua carriera, quale modello di camera hai preferito?

Ho già menzionato il mio periodo 16mm all'inizio, e la Aaton ‒ “il gatto sulla tua spalla” ‒ è stata di gran lunga la mia camera preferita per quasi 20 anni. Poi negli anni con il 35mm sono stato un fan della Moviecam, senza contare che questa camera era stata sviluppata a Vienna da Gabriel Bauer. La semplicità e la spontaneità del girare della vecchia epoca analogica è qualcosa che a volte oggi mi manca (in termini professionali). D'altra parte bisogna riconoscere che c'erano abbastanza problemi, non tanto con l’attrezzatura ma con i diversi materiali negativi: non c’era un "unica" e sempre perfetta qualità (sorride). Pensiamo solo a quanti problemi creava la grande diversità dei materiali e quanto tempo ha richiesto uno sviluppo ragionevole nella gamma dinamica o fino a 500 ASA! E oggi gli studenti di cinema si lamentano se non devono superare, chessò, i 3000 ASA (ride). Finché ho ancora un mirino e una praticità ergonomica va tutto bene. Ma non voglio correre in giro con una calcolatrice, con 20 cavi e collegamenti div da gestire (non c’è da ridere, non è scontato). Infine, appena, per il lavoro professionale, sono arrivato alla Arri, già con l’Alexa, sono stato in buone mani; loro non hanno mai dimenticato quello che ci serve nelle nostre professioni. Ho sempre cercato il percorso più diretto dai miei occhi all’immagine: è quella la camera migliore, senza ostacoli: una chiara linea degli occhi.

Christian Berger. Photo by Douglas Kirkland

Christian Berger. Photo by Douglas Kirkland

Quali cinematographers italiani, passati e presenti, ammiri di più?

Ho amato il lavoro di Carlo di Palma (Deserto rosso) e Gianni di Venanzo (La notte). Riguardo al presente mi sento vicino al lavoro di Luca Bigazzi e alla sua luce (La grande bellezza).

Come pensi che la pandemia influenzerà l'industria cinematografica e soprattutto la sua fruizione da parte del pubblico?

Non lo so davvero, questi problemi influenzano molto di più dei "piccoli problemi" del nostro settore piuttosto privilegiato. Ci sono paure e speranze... Ma la gente di cinema non se ne interessa tanto. La gente di cinema si preoccupa che i proiettori non si arrugginiscano. Il pubblico probabilmente si abituerà alla visione sui telefoni cellulari.

In conclusione…

Allego un piccolo video a questa intervista per dare ai vostri lettori un'idea di come è nato il CRLS, dopo 20 anni di test e sviluppo dei vari prototipi... Spero di dare una nuova visione sui metodi di illuminazione e si tratta davvero di qualcosa di molto semplice e chiaro. Questo video è forse un po' improvvisato ma perché no... È frutto della libertà che la pandemia mi ha concesso. Voglio ringraziare Gerry Guida, perché mi ha sostenuto e ispirato con la sua intervista. E spero di poter ispirare a mia volta altre persone.

 

Sito ufficiale: www.christianberger.at

 

Scopri i nostri libri qui
Scopri le nostre interviste con i
cinematographers e i registi
Iscriviti alla nostra
newsletter

La nostra ultima pubblicazione, Conversazione su Favolacce, è in offerta speciale sul nostro
sito