Volti, sogni e un Cristo sardo. Conversazione con Giovanni Columbu

Giovanni Columbu (Nuoro, 1949), laureato in architettura, disegnatore e pittore, è stato assessore alla cultura a Quartu Sant’Elena (CA). Ha lavorato alla RAI di Cagliari realizzando diversi documentari tra cui Visos, sogni, visioni, avvisi, vincitore del Prix Italia e del premio alla sceneggiatura Equinoxe e selezionato dal Sundance Institute, e Villages and Villages, vincitore del Prix Europa nel 1990. Con la casa di produzione Luches ha realizzato il suo primo lungometraggio, Arcipelaghi. Nel 2012 ha realizzato Su Re, rilettura della Passione di Cristo trasposta in Sardegna e parlata in sardo, premio della Critica e il premio Signis al Buenos Aires Festival Internacional de Cine Independiente. Del 2017 è il documentario Surbiles, presentato al Festival di Locarno e distribuito da Istituto Luce - Cinecittà.

Qual è stata la sua formazione e quali sono stati i suoi primi passi nella realizzazione di documentari e reportage?

Ho studiato al liceo artistico di Brera e mi sono laureato alla facoltà di Architettura di Milano. In quegli anni io e alcuni compagni del liceo avevamo costituito lo Studio G28, nel quale realizzavamo opere di pittura e fotografia che suscitarono l’interesse di critici come Mario De Michelis, Umberto Eco e Tommaso Trini, trovando accoglienza in prestigiosi spazi privati e pubblici, inclusa la Biennale Arte di Venezia nel ’76. Recentemente una serie di opere esposte col titolo Strategia di informazione alla Rotonda della Besana e al Palazzo della Permanente sono state riproposte da alcuni musei italiani. Nel 1979 mi sono poi trasferito in Sardegna dove ho lavorato per la sede regionale della RAI realizzando programmi sperimentali e documentari venduti in diversi paesi del mondo.

In Visos sembra studiare un popolo a partire dai suoi sogni, riflesso delle apprensioni e delle speranze di una comunità. Questo rimanda al metodo con cui Ernesto De Martino ha studiato le tradizioni magiche del Sud Italia e le cosiddette apocalissi culturali. Cosa l’ha ispirata a fare questo documentario onirico? 

Ricordo che quando intrapresi quel documentario c’era chi mi diceva: «Cosa vuoi che sognino i pastori? Sogneranno pecore e formaggio». Altri più radicalmente escludevano che i pastori potessero sognare. Nel proposito di raccontare i sogni dei pastori c’era in effetti un sotterraneo senso polemico che derivava dall’esigenza di dare della Sardegna un’immagine che non riguardasse solo la cosiddetta “cultura materiale”. In quel momento le rappresentazioni più frequenti mostravano un mondo pastorale nel quale gli uomini erano intenti alle occupazioni della campagna, zappare, portare al pascolo il bestiame, preparare il formaggio, mentre le donne comparivano impegnate a svolgere le tradizionali attività domestiche e artigianali. L’immagine che ne derivava avrebbe dovuto essere oggettiva e realistica, come si voleva che fossero i documentari, invece quell'immagine comunicava a mio parere una sensazione di assurdità; ogni uomo risultava uguale a qualsiasi altro, perché tutti erano privati di quanto è più umano, la soggettività, le differenze individuali, le emozioni e i pensieri che sempre accompagnano l’agire materiale. 

Il dramma rurale Arcipelaghi è stato il suo primo film di finzione. Il montaggio alterna le scene nel tribunale e la ricostruzione retrospettiva dei fatti, l’uccisione di un bambino da parte di una banda di ladri e la vendetta che compie, su richiesta della madre, il fratello del bambino ucciso. Quanto i concetti arcaici di vendetta e di onore sono tuttora presenti nella Sardegna rurale? Che ruolo hanno le istituzioni come il tribunale o la scuola per questi centri?

Quello che mi aveva affascinato del romanzo Gli Arcipelaghi di Maria Giacobbe era innanzitutto la struttura frammentaria dell’esposizione. Una sorta di viaggio nella mente dei protagonisti i quali raccontano ognuno a modo proprio quello che è accaduto. Questa struttura trovava corrispondenza nel titolo del romanzo che prima ancora di riferirsi a un delitto alludeva al carattere frammentario e molteplice dei ricordi, e quindi della verità. Quando mi cimentai nella sceneggiatura esplorai la possibilità di ricomporre l’esposizione secondo uno schema lineare, ma alla fine mi resi conto che la soluzione migliore era un montaggio imperniato sui flashback, in cui le diverse versioni dei fatti si intrecciavano e si contrapponevano. Quanto al delitto e alla vendetta non c’è dubbio che abbiano radici arcaiche, ma è tuttavia interessante ricordare che Maria Giacobbe fu incoraggiata a scrivere Gli Arcipelaghi da un fatto accaduto in tempi recenti e in un ambiente tutt’altro che arcaico. Il caso era quello di una donna di Amburgo a cui era stato ucciso il figlio. Mentre si svolgeva il processo ed era ormai chiaro che l'assassino sarebbe riuscito a farla franca, la donna estrasse dalla propria elegante borsetta una pistola e uccise l’assassino di fronte ai giudici e agli avvocati. Un altro episodio che posso citare in merito al valore non anacronistico e non solo sardo della vendetta riguarda una manifestazione organizzata dalla fondazione francese Equinoxe in cui ebbi l’opportunità di discutere del film con Callie Khouri, sceneggiatrice di Thelma e Louise. Lei trovava del tutto naturale che la madre del bambino ucciso si vendicasse, ma sosteneva che non avrebbe dovuto uccidere uno solo dei tre delinquenti, come io avevo immaginato, bensì avrebbe dovuto ucciderli tutti e tre. Aggiungo più in generale che quando si verificano offese gravi e l'autorità a cui compete di regolare i conflitti è assente o incapace di intervenire, allora emerge in ogni essere umano un bisogno di giustizia che può dare luogo alla vendetta. In Sardegna si è discusso e si discute molto di questo tema, quasi sempre auspicando il perdono da parte delle vittime. Personalmente, soprattutto dopo essermi dedicato allo studio del Vangelo, trovo che gli appelli al perdono non sempre siano sostenibili. Nello stesso racconto della crocifissione fatta dall'evangelista Marco, considerato il più propenso alla misericordia, Gesù non perdona entrambi i ladroni ma solo quello che si pente e che chiede di essere perdonato.

Su Re è forse la sua opera più nota. Fiorenzo Mattu, già nel cast di Arcipelaghi, qui interpreta il Cristo. Il suo volto ricorda in maniera impressionante alcune rappresentazioni dell’arte sacra medievale e rinascimentale della Passione. La stessa scelta di ambientare una Passione in Sardegna vuole rimandare alle opere dei pittori rinascimentali che rappresentavano gli episodi narrati nel Vangelo ambientandoli nei loro paesi e nel loro periodo storico. In che modo si è accostato, come regista, a un soggetto tante volte rappresentato nel cinema e nell’arte sacra?

L’idea di questo film nasce a seguito di una mostra sulla Sacra Sindone in cui mi trovai a osservare una grande tavola che riportava su quattro colonne i brani dei quattro Vangeli che descrivono i patimenti inflitti a Gesù. Quelle descrizioni mi fecero pensare a diversi testimoni che avessero visto e poi raccontato lo stesso fatto come in base alla propria soggettiva percezione e alla propria sensibilità. Lo stile apparentemente impersonale, per effetto dell’affiancamento dei testi, si trasformava rinviando ai raccontatori e rivelando il tono incerto di un ricordo. Nei giorni successivi provai a leggere il Vangelo in un modo a cui prima non avrei pensato: trasversalmente, ovvero passando da un testo all’altro. Scoprii che per effetto delle ripetizioni il racconto assumeva una forza drammatica molto maggiore e leggendo avvertii come mai in precedenza il dolore della tragedia che si narrava. Fu allora che decisi di trarre dal Vangelo un film da raccontare come un sogno e da trasporre in Sardegna. Il fatto che la storia fosse già stata raccontata dal cinema e altre infinite volte dalla pittura non impediva che si potessero tentare nuove e innovative rappresentazioni. Il progetto ebbe risposte negative da parte degli enti preposti al finanziamento, ma trovò credito sulla stampa e in un vasto numero di persone. Questo mi incoraggiò a tentare una sottoscrizione pubblica. Promossi decine o forse centinaia di incontri scoprendo che raccontare un film era già un modo per farlo esistere. Dopo circa un anno avevo raccolto una parte del budget considerevole ma inferiore a quanto era necessario, eppure rifiutai una proposta di finanziamento integrale che mi fu avanzata da un privato, perché voleva che io raccontassi che non erano stati i sacerdoti a volere la morte di Gesù ma il console romano Pilato. Si trattava di una tesi suggestiva e forse dotata di fondamento storico. Senonché io volevo raccontare il testo del Vangelo, che ritenevo ancora più pregnante dell’eventuale verità storica: l’innovatore e rivoluzionario che prima ancora di scontrarsi con i poteri esterni viene mandato a morte dalla propria “chiesa”. Un contenuto che trova nel Vangelo un fondamentale riscontro in diversi richiami alla responsabilità, sia individuale che collettiva. 

Su Re spezza la cronologia lineare del racconto della Passione a favore di un flusso libero di immagini che inizia e finisce con Maria che piange nella Grotta del Sepolcro. Anche qui il racconto diventa sogno, sogno sacro. L’uso del dialetto sardo non sottotitolato rimarca l’ancestralità della vicenda. De Martino affermava che la vita e la morte di Gesù, per come erano state rielaborate dal Cristianesimo, erano eventi metastorici che si collocavano a metà della storia umana avvalorandola e dando una grande importanza alla vita e al mondo degli uomini. Il Cristo e il cristologico che valore possono avere nel mondo contemporaneo?

È stato dopo i primi giorni di ripresa che ho avvertito il bisogno di cambiare radicalmente la forma narrativa. Ho abolito le scenografie, le luci artificiali e i costumi più teatrali. Ho messo l’interprete di Giuda, Fiorenzo Mattu, nella parte di Gesù, correggendo a questo modo l’errore di avere scelto un eroe bello e un traditore espressivo. Dopo anni di scrittura e riscrittura della sceneggiatura, al momento delle riprese mi sono affidato quasi esclusivamente alle sintetiche formulazioni del Vangelo che mi permettevano di reinventare più liberamente le scene senza perdere di vista il loro significato essenziale. Ho immaginato uno schema che mi permettesse di spezzare l’ordine cronologico assumendo ogni episodio quasi come un racconto dotato di senso proprio. Ho quasi abolito lo studio delle inquadrature, pur essendo sempre stato un cultore dell’inquadratura, scoprendo che potevano essere ancora più efficaci se mi limitavo a orientare la macchina da presa verso il soggetto. Ho portato centinaia di malati in cima a una montagna e ho girato nei giorni di tempesta. Ho scoperto nuovi metodi per favorire la recitazione di scene obiettivamente molto lontane dalla attuale quotidianità. Il film è stato un laboratorio di idee per fare emergere anche negli attori modalità espressive non del tutto preordinate. Per tutti questi motivi alla fine di Su Re, che era la mia opera seconda, ho avuto l’impressione di dover ancora girare la mia opera prima. Quanto alla riflessione di De Martino che lei ha citato posso dire che la ritengo del tutto vera. Il Vangelo è la storia di Gesù ma è anche storia della società umana. Aggiungo che in questo racconto tutto si presta a una doppia lettura, trascendentale e immanente. Ad esempio la natura duplice, divina e umana, di Gesù può essere intesa in senso proprio o nel senso di quella duplice disposizione che c'è in ogni uomo: una dettata dagli istinti e un’altra tesa verso gli ideali più elevati. Anche queste diverse e possibili letture concorrono all'attualità e universalità del testo.

Il più recente Surbiles, secondo le sue stesse parole, «racconta e ricostruisce visivamente alcune delle storie emerse inaspettatamente dall’inchiesta antropologica effettuata per Visos». Le surbiles, secondo le tradizioni popolari sarde, sono donne apparentemente uguali a tutte le altre che fra il tramonto e l’alba abbandonano il loro corpo fisico andando a succhiare il sangue dei neonati. Come si è accostato a mettere per immagini queste vicende? Quanto è importante per lei fissare in un film delle tradizioni antropologiche che stanno scomparendo?

Surbiles, 2017

Surbiles, 2017

Le surbiles sono figure orrorifiche per certi aspetti prossime ai vampiri. In loro coesiste una donna buona e un mostro che a volte prende il sopravvento. Nella surbile il male non sta altrove ma dentro di lei. Sono pericolose e temute, e tuttavia, in virtù di un tratto di saggezza e di civiltà che contraddistingue la cultura popolare sarda, anche quando compiono dei delitti non vengono condannate ma considerate loro stesse vittime di un destino doloroso. Mi piacerebbe riprendere questo tema così affascinante e misterioso. E poter ancora lavorare sia con gli interpreti del luogo che con quelli esterni che hanno concorso ad ampliare i registri espressivi del racconto. Mi riferisco al gruppo di sofferenti psichici che ci ha raggiunto da Cagliari e ha preso parte alla scena del ballo tondo, e a mia figlia Simonetta, la quale da alcuni anni lavora a Roma come attrice, e che ha interpretato la parte di una surbile. Il loro apporto mi ha convinto che anche nel cinema di segno antropologico la verità può essere rintracciata in una dimensione interiore e in una radice universale comune a tutti gli esseri umani. 

Oltre alla produzione saggistica di De Martino i suoi film fanno tornare in mente il cinema di autori come Pierpaolo Pasolini, Vittorio De Seta, i fratelli Taviani, Franco Piavoli – a cui lei ha dedicato un documentario – e per certi versi anche Silvano Agosti. Gavino Ledda, autore di Padre padrone, fa parte del cast di Su Re. Quali sono i modelli letterari e cinematografici del suo cinema?

Non posso che considerare maestri gli autori che lei ha citato. Ma i registi a cui mi sento idealmente più vicino appartengono a un tempo più remoto. Mi riferisco agli espressionisti tedeschi, da Murnau a Lang, e ai due giganti del cinema svedese e danese, Bergman e Dreyer. 

Durante la sua vita, alla realizzazione di film e documentari ha accompagnato anche l’impegno politico nella sua regione, negli anni ’90 è stato assessore alla cultura al comune di Quartu Sant’Elena e più recentemente ha fatto da presidente del Partito Sardo d’Azione. In che modo ritiene che il suo cinema si coniughi con il suo impegno politico?

Forse ho ereditato qualcosa da mio padre, Michele Columbu, che è stato scrittore e politico, deputato al Parlamento italiano e al Parlamento europeo e autore nel 1964 di una marcia di protesta per denunciare la povertà delle zone interne della Sardegna. Una marcia iniziata in modo solitario e conclusa con un vastissimo seguito popolare.  E poi da mio nonno, Dino Giacobbe, che è stato assieme a Emilio Lussu uno dei fondatori del Partito Sardo d’Azione, dopo essere stato volontario nella prima Guerra mondiale, avendo allora 17 anni, e successivamente antifascista, perseguitato, poi esule negli Stati Uniti e infine volontario in Spagna contro i franchisti al comando della batteria “Carlo Rosselli”. Da loro e da altre esemplari figure della mia famiglia ho ricevuto l'immenso dono dei valori ideali. Per questo ho avvertito in più occasioni la responsabilità dell’impegno politico e ho accettato alcuni incarichi. Altri incarichi invece li ho respinti perché avrei dovuto abbandonare troppo a lungo la mia primaria passione per l’arte.

Oltre all’attività cinematografica e politica lei ha al suo attivo svariate esposizioni come pittore e disegnatore, alcune delle quali direttamente legate alla sua filmografia, come la mostra dei bozzetti di scena di Su Re allestita al Centro San Fedele di Milano nel 2015, altre invece autonome. Quali sono gli ambiti privilegiati della sua ricerca pittorica? Secondo lei in cosa sono simili e in cosa sono diversi il linguaggio cinematografico e il linguaggio delle arti visive?  

Legione è il mio nome poiché siamo molti, acrilico sui carta, 2014

Legione è il mio nome poiché siamo molti, acrilico sui carta, 2014

I due linguaggi necessitano di competenze tecniche e strumenti diversi ma hanno alcuni punti in comune. Quello essenziale è che entrambi si prestano a dare forma a un racconto. È bello scoprire che un racconto può essere fatto su un foglio di carta, senza mezzi costosi, senza troupe, in qualunque momento del giorno e della notte. Come nel cinema anche nel disegno i mezzi e gli strumenti concorrono alla narrazione. Apporti simili a quelli che sul set vengono dati dagli attori in virtù della loro personalità e delle loro capacità inventive, in un disegno scaturiscono dalla carta, dai pennelli e dai colori. Il colore genera sulla carta reazioni chimiche e microcosmi che riflettono leggi universali della natura. La mente guida la mano e la mano suggerisce alla mente nuove soluzioni. Nei miei disegni parto da un’idea e a volte da un piccolo bozzetto. Poi lo elaboro ma spesso il bozzetto è più espressivo. In definitiva anche i segni e i colori hanno una propria personalità e in un certo senso recitano. Non solo, fanno spesso quello che vogliono loro. Io un po’ li padroneggio e li guido e un po’ li assecondo. 

Sappiamo che è in fase di lavorazione Balentes, un film di animazione. Cosa ci può anticipare su questo progetto e sulla particolare tecnica di animazione utilizzata?

Si tratta di una storia vera ambientata nella Sardegna degli anni ’30. Protagonisti sono tre giovani poco più che adolescenti. Di fronte ho ancora un paio d’anni di lavoro.