Come un sasso in uno stagno. Conversazione con Luca Gorreri

Artdigiland è partner di Indiecinema.it, la piattaforma on line per il cinema indipendente. In occasione del lancio sulla piattaforma del film di Luca Gorreri Sassi nello stagno e della serata di presentazione alla presenza dell’autore, a Roma, il 6 febbraio 2020, intervistiamo Luca sulla sua avventura cinematografica. Gorreri nasce a Parma il 21 dicembre 1970. Racconta che fin da piccolo dimostra una predilezione per le immagini e una spiccata introversione che gli complicheranno la vita ma svilupperanno una passione per il cinema. Da ragazzo aiuta il padre a riprendere matrimoni e cerimonie imparando ad usare le prime videocamere e sfrutta queste competenze per realizzare insieme ad amici alcuni film amatoriali. Frequenta i corsi della Scuola di Cinema Mohole di Milano, effettua riprese di eventi, concerti e per videoclip, ma la strada che desidera percorrere è quella del documentario. Adora i film sperimentali e la nouvelle vague: Godard, Truffaut, Bressane. Ama le figure dei "perdenti", animati da passioni inestinguibili, come Ed Wood. Tra i suoi amori anche la fantascienza anni '50 e i fumetti, soprattutto Magnus e Jack Kirby. È per le visioni insolite e particolari. Sassi nello stagno è la sua opera prima (soggetto, regia, produzione).
I dettagli per la partecipazione alla serata del 6 febbraio al Caffè letterario li trovate
qui.

Scrivi nella tua biografia di essere nato in una sera di nebbia, a Parma… Il festival di Salsomaggiore Terme nel tuo primo documentario… Offri sempre suggestioni in termini visivi, direi cinematografici. Cos’è per te il cinema? Una coraggiosa sfida all’introversione dettata dal contesto in cui sei cresciuto forse?

La nebbia è una magia che riesce nell'intento di riunire terra e cielo in un ovattato, soffuso silenzio. Lo sguardo è ristretto ma spazia in altre dimensioni. Tutto questo è rimasto impresso nelle mie memorie infantili, a fondamento di tutto quello che sarebbe venuto in seguito. E il cinema è come quella nebbia che unisce sogno e realtà, nebbia che scompare all'accendersi delle luci in sala ma ti rimane dentro, nelle ossa, come l'umidità, negli occhi, e non ne hai abbastanza, tanto da volerla creare anche tu. Quando si è chiusi, timidi, si sogna e si fantastica, si cerca un mondo alternativo e questo mondo prima o poi deve uscire dagli stretti confini della tua mente, deve avere vita propria. Come per tantissimi altri prima di me, il cinema è autoguarigione, autoanalisi.

Raccontaci dei tuoi primi filmini amatoriali. Li hai conservati e li riguardi ancora? Vorrei sapere se ti hanno lasciato qualcosa di utile per i lavori e i progetti del presente.

I primi film, se così possiamo definirli, furono fatti per imitazione, per sfuggire all'introversione, come abbiamo detto, per conoscere meglio le persone che mi erano intorno, i miei compagni di classe. E direi che ha funzionato: con le persone che hanno partecipato ai film ho stretto solide amicizie che durano tutt'ora nonostante le separazioni che la vita impone; soprattutto con un compagno, Paolo, che considero mio fratello e mio mentore. I film li ho ancora, ho ancora le VHS (cassette a nastro per videoregistratori), e li ho trasferiti su dvd per non perderli. Quando li guardo, mi faccio ancora grasse risate nel vedere come eravamo soggetti alle influenze televisive e cinematografiche degli anni '80. Uno di questi film, fatto alla fine delle superiori, fu interrotto e mai finito. Dopo la scuola molti hanno iniziato a lavorare, qualcuno è andato all'università e non ci siamo quasi più visti. Ora ho fatto digitalizzare il girato e l'ho montato. Vorrei terminarlo, trent'anni dopo, farlo diventare una specie di documentario su come eravamo, su come siamo ora, indagando se se tutto è andato come speravamo. Diciamo che, da autodidatta, queste prime esperienze basate sull’imitazione mi hanno lasciato una certa tecnica di base e la capacità di lanciarmi a testa bassa in un progetto. 

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Piuttosto che offrire una disamina generale della tua gavetta nell’audiovisivo, preferirei parlare dell’esperienza alla scuola Mohole di Milano. Pensi ti sia stata utile? Se sì, per quale/i motivo/i?

Direi che la scuola è stata molto utile per formarmi tecnicamente, per dare un nome a cose che avevo imparato da solo e per aggiungere conoscenze importanti per un autore che voglia cimentarsi con le immagini in movimento. La conoscenza del mezzo tecnico è imprescindibile, così come è necessario conoscere le regole prima di poterle “infrangere”. Le scuole di cinema dovrebbero servire a questo: insegnare la tecnica. Difficile insegnare il talento, difficile insegnare a sperimentare, sono cose che si hanno o non si hanno.

Qual è stata la tua formazione cinefila primordiale? C’è un film in particolare che ti ha fatto innamorare del cinema dall’interno di una sala? 

Il primo film di cui ho memoria è Godzilla contro Megalon (1973) che vidi in un cinema che fu chiuso poco dopo e trasformato, ahimè, in una banca. Nonostante una terribile tosse, restai estasiato ed esaltato dai mostri e dai quei personaggi fantastici. Poi seguì Guerre stellari nel 1977, che fu uno spartiacque nel mio immaginario. Si può dire quindi che la mia prima formazione è stata fantascientifica, favole del futuro che mi portavano lontano, lontano. Formazione che continuava a casa grazie alla televisione, in particolare grazie al canale della Svizzera Italiana che tutti i sabati sera trasmetteva film di fantascienza. Grazie a loro vidi L'invasione degli ultracorpi, Them, La guerra dei mondi e, pensa un po', addirittura Solaris di Andrej Tarkovskij. Il cinema come luogo lo scoprii grazie ai film della Disney: non mi piacevano un granché e scorazzavo per la sala, scoprendone gli anfratti, gli odori, i pesanti tendoni di velluto che coprivano le uscite, i poster giganti dei film, i seggiolini di legno scricchiolanti della galleria, rimasta tabù fino all'adolescenza, un luogo che segnava un passaggio, una iniziazione verso un'età più adulta. Una magia che ha cambiato forma (non scorrazzo più per le sale) ma che resta nella sostanza.

Sempre nella tua biografia scrivi di amare i cosiddetti “perdenti”? Hai qualcosa in comune con questi personaggi? Che rapporto hai con gli ambienti in cui vivi? Sei uno spirito nomade? 

I perdenti sono quelli che hanno fatto la storia. Per fare un vincitore, ci deve essere un perdente. Nonostante l’imprinting dell’immaginario americano basato sulla competizione sfrenata e sulla gloria dei vincenti, sono i perdenti a segnarmi, per la loro resistenza. Perdono (se poi è vero che perdono) ma vanno avanti, insistono. Sulla scrivania dove passo il mio tempo, davanti a me ho una foto di Ed Wood, un genio senza talento. La sua passione era il cinema e ha continuato a farlo nonostante fosse stato definito il peggior regista di tutti i tempi, fino alla fine, povero e malato. Ma la sua storia è quella di tutti gli artisti che in vita sono stati denigrati, esclusi, non considerati ma diventano famosi dopo morti (bella consolazione). Dopo la morte vengono loro dedicati saggi, retrospettive, mostre, mentre sarebbe stato sufficiente dare un po’ di ascolto quando lo chiedevano. Spirito nomade rappresenta bene il mio essere: non mi sento legato a nessuno dei luoghi dove ho vissuto e dove sono stato, anche per poco. Il luogo in sé non è importante, sono le sensazioni che restano. I contesti sociali, soprattutto se piccoli, sono difficili. Per me è difficile entrare in sintonia con ambiti ristretti, con i quali non condivido il modo di pensare. Gli ambienti chiusi sono ovunque, sia nei piccoli paesi di provincia, sia nelle grandi città. L'uomo si crea piccoli ambiti dove stare al sicuro, tranquillo. Girando Sassi nello stagno ho avuto modo di sperimentare molte chiusure, che più che altro mi hanno incuriosito. La curiosità di capire il perché di queste chiusure. Tra i miei progetti attuali, infatti, ci sono due documentari su personaggi di Salsomaggiore: due fratelli registi e un grande sceneggiatore di fumetti. Su entrambi, per la maggior parte, è caduto l'oblio ed è questo oblio che mi attira. Le falene sono attratte dalla luce, io dal buio.

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Parliamo della tua passione per la fantascienza. Immagino che tu la segua in tutte le sue forme, dalla letteratura, ai fumetti, al cinema. Nella fantascienza cinematograica a basso costo degli anni ’50 c’era un gusto figurativo bozzettistico che derivava a mio avviso proprio dall’estetica del fumetto, un’ironia discendente dalla scuola britannica ma anche un’inquietudine figlia del dopoguerra e dell’espansione tecnologica. Penso proprio a un’opera spartiacque come L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel, ma ricordo con piacere anche il film di culto Them - Assalto alla Terra di Gordon Douglas, che hai entrambi citato. C’è un film della science-fiction americana di quegli anni che conservi nel cuore e che per te è un cult assoluto, al di là della sua rilevanza storiografica? 

Il tuo istinto ti guida bene. Come dicevo prima, la fantascienza ha rappresentato, nell’infanzia, la mia formazione visiva e culturale. Le favole “classiche” non mi piacevano e non mi attiravano: ho letto per la prima volta Pinocchio e Alice nel paese delle meraviglie solo qualche anno fa, e non mi sono piaciuti per nulla. La fantascienza invece offre quell'evasione che ti permette di viaggiare ovunque e di comprendere metafore sul mondo che ci circonda.  I libri di fantascienza che mi piaciono di più sono la saga John Carter di Marte di Edgar R. Borroughs (diventato poi famoso grazie a Tarzan), oltre ai classici di H.G. Wells e tutta la fantascienza fino agli anni '50. Poi si è contaminata troppo con la vita reale, escluso P.K. Dick che rappresenta un capitolo a parte e il fuoco di paglia del Cyberpunk. I fumetti rappresentano un'altra grande passione, pieni di elementi che solleticavano la mia curiosità. Per i fumetti passo dalla fantascienza barocca di Magnus (Roberto Raviola), a quella stupefacente, lisergica, di Moebius, a quella realistica di Leo e quella fobica degli anni '50 di Weird Science di Williamson, Gaines, Wally Wood che hanno ispirato, nella forma e nella sostanza, tutti i film di fantascienza di quell'epoca, come quelli che abbiamo citato.

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Ma anche Ultimatum alla Terra (1951- Robert Wise)... Klaatu Barada Nikto!, la saga del Dottor Quatermass e tanti, tanti altri. Nel cinema penso di aver visto quasi tutti i film di fantascienza prodotti fino alla metà degli anni ’80, poi i troppi effetti speciali, soprattutto quelli digitali, hanno rovinato la magia. O al cinema o in televisione o in dvd, li ho visti e rivisti e rivisti e… Difficile fare una classifica dato che ognuno di essi mi ha lasciato qualcosa di importante, persino quelli italiani di Anthony Dawson (Antonio Margheriti). Per me Il film culto di fantascienza degli anni d'oro è Il pianeta proibito (1956) di Fred M. Wilcox, per le sue atmosfere differenti, sognanti. Ma quello con cui ho un rapporto più intimo è L'impero colpisce ancora (1980) di Irvin Kershner, quinto episodio della saga di Guerre stellari. Al di là della bellezza formale e narrativa, mi ha segnato profondamente il fatto che i “buoni” possano essere sconfitti, e quindi resi ancora più umani, più vicini. Tema che avrei ritrovato più tardi nel Romanticismo. E poi ci sarebbe anche Blade Runner (1982) di Ridley Scott, la cui fotografia mi ha fatto innamorare del controluce, che cerco di far diventare la mia cifra stilistica.

Veniamo al tuo film d’esordio, il bel documentario Sassi nello stagno, che a mio avviso non è un semplice documento audiovisivo sul festival di Salsomaggiore Terme ma piuttosto un atto d’amore a quel cinema sommerso che l’attuale network dell’audiovisivo, d’immediato accesso a una miriade di contenuti, ha finito per rendere dispersivo. Un documentario che racconta una svolta, una stasi e una dispersione in maniera precisa, attenta e solidale alle voci dei suoi creatori e di coloro che hanno assistito al suo sviluppo. E ti sei anche lasciato andare a delle interpretazioni personali sul piano simbolico che lo rendono decisamente interessante. Da chi è partita l’idea di prendere in esame la parabola di vita del festival? Come si è sviluppata la lavorazione? In quali fasi hai incontrato difficoltà?

L'idea è nata dopo una chiacchierata tra me e la mia compagna e complice Stefania a cui devo la (ri)scoperta del Cinema dopo una lunga, lunga pausa. Parlando della nostra infanzia e adolescenza arrivammo al discorso sul cinema e sul fatto che a Salsomaggiore, dove abitiamo,c’era stato un festival di Cinema che ricordavamo come importante. Ma a Salso tutto è offuscato dalle Terme (in declino) e da Miss Italia (che non c'è più), e trovammo incredibile che vi fossero poche tracce di questo importante evento. Feci qualche ricerca in internet ma trovai veramente poco, le poche vestigia erano nelle filmografie degli autori italiani, allora esordienti, che avevano partecipato. Andai nella biblioteca locale ma trovai solo qualche catalogo e la rassegna stampa di una edizione. Incuriosito sempre di più da questa mancanza di informazioni, iniziai da questo piccolo nucleo a cercare nomi, contatti, persone e personaggi. Mano a mano che procedevo, si dipanava davanti a me un Festival inconsueto per modalità e contenuti che riuscì a portare in un piccolo paese di provincia, personaggi come Godard e Samuel Fuller, Jim Jarmusch, Amos Gitai, Robert Kramer e tantissimi altri, personaggi che per un cinefilo rappresentano l'Olimpo. Le difficoltà che ho avuto, paradossalmente, le ho incontrate proprio nella città che ha ospitato (e mai accettato completamente) il Festival: ritrosie, lacune, divergenze. Ho trovato solo poche persone disponibili a parlarne e ad essere intervistate. Con molta più facilità e disponibilità sono riuscito a contattare le persone coinvolte nell'organizzazione del Festival come Adriano Aprà, Patrizia Pistagnesi e Enrico Ghezzi. Altrettanto facilmente ho trovato gli autori che avevano partecipato al Festival e che lo ricordavano con molto affetto. Sono stati molti disponibili a darmi le opere che avevano presentato al Festival e grazie a loro il documentario si è arricchito notevolmente.

Gestisci tu l’intera post-produzione, grazie alle democratiche possibilità del digitale? Quali sono stati i parametri di ricerca del materiale trattato dal tuo film?

È grazie al digitale ed al suo “facile” accesso che ho potuto realizzare il documentario. In tempi di pellicola non avrei potuto. Ed è grazie alle possibilità del montaggio digitale che il film è nato; posso proprio dire che è nato al montaggio. Lo stile, il taglio, l'atmosfera si sono materializzati nella timeline, tra le scintille delle discussioni con Stefania, che si è occupata del montaggio. Le interviste mi avevano dato gli spunti per l'atmosfera, i filmati originali così come gli spezzoni di film inseriti, mi hanno suggerito lo stile e il taglio. Quando ho iniziato, non sapevo bene come selezionare i materiali, ma sapevo benissimo cosa non inserire. Ho lavorato per sottrazione, se così si può dire. Volevo il più possibile far vedere cosa era stato e chi era stato al festival, quindi mi serviva molto materiale di repertorio e in questa ricerca sono stato molto fortunato anche se al montaggio, per ovvi motivi di lunghezza, ho dovuto tagliare molte cose interessanti.

So che stai progettando un nuovo documentario, una storia particolare che ti tocca da vicino. E so anche che nella tua mente sta baluginando l’idea di un tuffo nel cinema di finzione. Vuoi anticiparci qualcosa su ambo i fronti? Potrebbe essere il sogno di un film di fantascienza a bassissimo costo, ambientato nella nebbia ma alla luce del sole e alle soglie della tua Parma? 

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Progetti nel cassetto ne ho molti, più o meno realizzabili con i miei limitati mezzi economici. Alcuni hanno bisogno di una produzione ma è praticamente impossibile trovare uno o più produttori interessati a progetti di documentari sperimentali. Ci sono molte piccole case di produzione ma di solito nascono appositamente per un progetto particolare. Accedere ai fondi pubblici per me è impossibile dato che dovrei fondare prima una casa di produzione e poi vincere i bandi. Ma se avessi i soldi per fare la casa di produzione, non avrei bisogno dei fondi pubblici! E poi abitare in una cittadina lontana da tutto e tutti non aiuta. C'è bisogno di presenza fisica, di contatti. La richiesta via mail o via social non funziona. Ho questo progetto: seguire per quattro stagioni un personaggio che, in riva al fiume Po, costruisce e ricostruisce installazioni, capanne, cambuse, navi, con i tronchi che il fiume deposita lungo la riva. È l'atmosfera senza tempo del luogo che mi ha colpito e la caparbietà assurda di questa persona che mi ha incuriosito. Al di là del raccontare il personaggio, vorrei anche raccontare chi racconta. l'autore mentre è coinvolto nella sua opera. È un viaggio lungo un anno in un luogo e nelle persone che lo vivono. Rispetto a Sassi nello stagno  dovrebbero esserci più scene di finzione rispetto alle scene documentali. Ho fatto poi un piccolo video in ricordo di mia nonna e dei sui ultimi anni di vita passati davanti alla televisione ma non avendo i diritti delle musiche che ho usato e riadattato, non lo posso pubblicare ma forse è meglio così. A chi interessa la vicenda di mia nonna? Parallelamente al progetto sul fiume Po, sto girando un adattamento molto molto personale e intimo del Deserto dei Tartari declinato su me stesso e la mia quotidianità, ma temo che non vedrà mai la luce del proiettore, dato che non ho la possibilità di pagare i diritti del libro. Lo farò per me, come autoanalisi. In questo progetto ci sono molte scene di finzione e poche di documentario. Quindi in effetti potrebbe essere in atto un avvicinamento progressivo al cinema di finzione e potrebbe essere proprio la fantascienza ad esserne la chiave. Una mia vecchia idea era quella di girare dei cortometraggi, ambientati ai giorni nostri e nei luoghi qui vicino, sulla scia della mitica serie Ai confini della realtà di Tod Serling, che nel titolo originale, The Twilight Zone, rende ancora meglio l'idea. Twilight è il crepuscolo, momento in cui il sole è appena tramontato e la notte non è ancora arrivata, la zona sospesa tra luce e ombra, rossa da un lato e blu dall'altro, momento caro ai Romantici. Sarebbe bello poter ambientare i cortometraggi in questo particolare tempo. Come la nebbia, il crepuscolo crea una sospensione che attira il cinema.

Sassi nello stagno fa parte della selezione curata da Adriano Aprà nel progetto Fuorinorma. Il libro-catalogo è pubblicato da Artdigiland e disponibile su Amazon, in versione bianco e nero, al prezzo di 32,90 euro.

Per gli iscritti Indiecinema il libro è disponibile nella limited edition con inserti a colori al prezzo scontato di 25 euro anziche’ 40. Per l’acquisto scrivi a sales@artdigiland.com.

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