Roland Emmerich

L’amore come eschaton laico (seconda parte). Il Cristo nascosto

L’amore come eschaton laico (seconda parte). Il Cristo nascosto

Nei precedenti articoli, applicando al cinema di fantascienza il modello di analisi proposto da La fine del mondo di De Martino per le apocalissi culturali, siamo partiti dai disaster movies di Roland Emmerich, che nel loro sottotesto rivelano ampie influenze dell’apocalittica cristiana, attraversando poi una serie di altri registi dall’immaginario post-apocalittico fino ad arrivare a Melancholia di Lars von Trier, apocalisse omnidistruttiva e atea; dal finale di Melancholia siamo poi ripartiti per mostrare come alcuni dei più recenti film che rappresentavano un mondo prossimo alla fine indicassero in un amore laico, famigliare o di coppia, l’ultima difesa contro l’apocalisse incombente. A questo punto vale la pena di rispolverare due delle più significative saghe di fantascienza degli anni ‘80-’90, che si relazionavano con la prospettiva dell’Apocalisse da un’ottica piuttosto particolare. La saga di Alien, iniziata nel 1979 con il capolavoro di Ridley Scott, racconta di gruppi di esseri umani che, vagando nello spazio, entrano in contatto con una specie aliena ferina e letale, gli xenomorfi. Se gli xenomorfi arrivassero sulla terra spazzerebbero via rapidamente ogni altra forma di vita; capeggiati nei primi quattro film della saga dall’iconico personaggio di Ellen Ripley (Sigourney Weaver), gli umani devono allora ad ogni costo tenerli lontani dalla Terra, combattendo, parallelamente, anche le corporazioni

Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche. L’escatologia di Roland Emmerich

Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche. L’escatologia di Roland Emmerich

È di recente pubblicazione per Einaudi la nuova edizione del saggio La fine del mondo di Ernesto De Martino. Come ogni studioso ed ogni appassionato di antropologia sa, La fine del mondo è un capitolo per così dire “maledetto” della produzione bibliografica del nostro antropologo più fecondo: iniziato nei primi anni ’60, annunciato nel 1964 in un articolo nella rivista «Nuovi argomenti» con il titolo di Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche, il saggio restò incompiuto a causa della prematura morte di De Martino nel 1965. Pochi mesi dopo la sua scomparsa iniziò fra i suoi collaboratori un intenso lavoro di catalogazione dei frammenti del saggio, che dopo parecchie vicissitudini vide la luce nel 1977, a cura dell’allieva Clara Gallini. Gli inevitabili limiti di questa prima edizione hanno spinto Giordana Charuty, Daniel Fabre e Marcello Massenzio a rimettere mano all’immenso archivio De Martino, realizzando una seconda e più efficace edizione di questa incompiuta opera-mondo che è uscita in Francia nel 2016 e in Italia lo scorso autunno. Complice la situazione attuale creata dal Coronavirus, la lettura de La fine del mondo nella sua nuova, brillante edizione mi ha portato a concepire l’idea di un viaggio a puntate attraverso le varie apocalissi cinematografiche, da Roland Emmerich ad Andrej Tarkovskij, passando per Lars von Trier e molti altri.