Su Roma di Alfonso Cuaron

Mi è difficile uscire dalla commozione per Roma di Cuaron. Un film straordinario. Straordinario da molti, da tutti i punti di vista. Pura arte visiva, insieme cinema neorealista e contemporaneo, anzi futuro. L’inquadratura iniziale, sui titoli, è una dichiarazione di poetica, il particolare di un pavimento, un pavimento che si fa mondo, mondo di suoni anche, mondo bagnato dall’acqua, una struttura narrativa fatta di onde, l’acqua che si fa sporca (shit happens …), il riflesso di un aereo che si fa epoca e Storia, un tempo più vasto, uno spazio più vasto, l’apertura in alto del cortile.. ancora qualcosa in più, il cielo, c’era sempre stato ma non lo vedevamo… 

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Straordinario il ritratto di un’epoca, la ricostruzione di una città, di un’atmosfera, di una vitalità, di una vita immersa nei rischi, nelle catastrofi. Straordinario soprattutto il punto di vista, la posizione politica. Il punto di vista della "servitù". Può l’amore esistere attraverso e nonostante le classi sociali? Cosa sono le classi sociali. Cosa è la povertà. Che cosa è la responsabilità. La storia di Cleo è la Storia del Messico, ma il Messico sa di essere Cleo? O pensa di essere gli States, che si divertono a sparare? Cleo è anche un’immigrata, con termine attuale. Soffre strutturalmente, ha nostalgia, è sola. 

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Il film parla di donne, di donne e di bambini, lasciati soli. 
Difronte al tema della maternità queste donne si ritrovano, si avvicinano, si aiutano, non si tradiscono, non si abbandonano. Stanno. Si prendono, per amore, responsabilità sempre maggiori. Come è ovvio per chiunque l’abbia visto, nel film c’è una sequenza che cambia la storia, che trasforma la linearità del racconto in un vortice che risucchia tutto e cambia le regole, cambia la rappresentazione della realtà, ridefinisce i rapporti, riconquista lo stato di natura. La sequenza – straordinaria dal punto di vista cinematografico, anche per la presenza, fisica e simbolica del sole – in cui Cleo, che non sa nuotare, si muove con passo sicuro verso il mare fino ad affrontarlo per salvare la vita dei due bambini travolti dalle onde.

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Dopo lo spavento, e sopraggiunta nel terrore la madre, mentre tutti si abbracciano per lo scampato pericolo ma sono ancora sotto shock, Cleo ruba la scena a tutti, si manifesta, si pone come protagonista di quella famiglia, comunica a tutti il suo trauma indicibile, la sua colpa: non voleva che la sua bambina nascesse. La bimba è nata morta e Cleo si sente in colpa. La confessione della colpa le permette di superare il trauma, di ritrovare la dignità, di essere compresa e abbracciata dalla famiglia grata e capace di essere sensibile a lei: «Ti vogliamo bene Cleo».

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La confessione è un atto politico e rivoluzionario, verso gli altri e verso se stessi: io esisto laddove sono immondo. L’immondizia, nata dall'abbandono, si può mondare, la sottomissione si può sovvertire, i crediti si possono riscuotere. Come dice Antonias Blok, Cleo si sente in diritto di esprimersi e spera di essere compresa perché ha salvato la vita della bambina borghese. Siamo tutti uguali, non ci sono residenti e migranti, servi e padroni, ma tutti siamo al mondo per salvare ed essere salvati. O per salvarci salvando.