Vajont

Quando a franare è il diritto. Conversazione con Alessandro Negrini su cinema, sogno, resistenza

 Alessandro, è passato un anno e siamo di nuovo al 9 ottobre, la data della tragedia del Vajont, alla quale è dedicato il tuo bellissimo La luna sott'acqua. Un anno durante il quale il film ha viaggiato molto. La dinamica di quella tragedia è esattamente la stessa, su scala diversa, di quello che sta succedendo adesso in Palestina: gli interessi economici arrivano al totale disprezzo della vita umana, fino a eccidi di incredibile ampiezza. Nella tragedia del Vajont mi pare siano morte circa 2000 persone. Vorrei mantenere questa nostra conversazione anche a cavallo dell’attualità di questi giorni, così forte, e che ti coinvolge direttamente come attivista...

Questa settimana torneremo in Friuli, nelle zone del disastro, con numerose proiezioni. In questo viaggio di un anno in effetti mi è sempre sembrato che il film dialogasse con la contemporaneità. C’è in effetti un parallelo evidente tra il Vajont e ciò che è successo in Palestina e alla Sumud Flottiglia; in entrambi i casi si è verificata una rottura del patto sociale tra i cittadini e lo Stato. La maschera è caduta: si è verificato qualcosa che ha denudato il potere, dicendo ai cittadini che non sono più protetti dalle Istituzioni, che nessuno di noi è più protetto nel momento in cui la priorità ce l’hanno il potere e l’economia. Ciò che è accaduto ai volontari della Flottiglia, che non solo non sono stati difesi, ma al contrario hanno subito un tentativo di delegittimazione e sono stati attaccati, insultati, incarcerati senza alcuna difesa da parte dello Stato di appartenenza. Le autorità italiane hanno addirittura ringraziato quelle israeliane per non averli uccisi. Lo stesso meccanismo si è verificato nella tragedia del Vajont, definito dall’ONU “il più grande disastro provocato dall’uomo in tempo di pace”. Anche allora i lo Stato non difese la cittadinanza. Difese il profitto. Ci furono 2000 vittime, che non solo non furono protette dal pericolo, ma non furono nemmeno avvisate. Tutto venne occultato.

Alessandro Negrini con il direttore della fotografia Oddgeir Saether, la scenografa Barbara Kapely e le comparse che nel film interpretano i galeotti

Un altro parallelismo riguarda il silenzio degli intellettuali e della stampa, con pochissime eccezioni, anzi una sola: la giornalista de «l’Unità» Tina Merlin, che venne accusata e processata per “procurato allarme”, nonostante stesse semplicemente tentando di affermare che si era in presenza di un grandissimo pericolo. Che differenza c’è tra il trattamento riservato allora a Tina Merlin e quello riservato a coloro che oggi denunciano il genocidio a Gaza, accusati di ogni cosa, anche di essere “filo Hamas”? La stessa delegittimazione, la stessa messa in stato di accusa di chi denuncia l’ingiustizia anziché di chi la perpetra.

Alessandro Negini con Guido Sain, uno degli ertani protagonisti de La luna sott’acqua

Dicevamo che il film ha avuto un percorso lungo, percorso che è ancora vivo, con passaggi in molti festival, italiani e stranieri, molti premi e riconoscimenti. Questo testimonia non solo la sua forza morale, ma anche una scelta estetica vincente, capace di comunicare in modo poetico i temi di cui tratta. Puoi parlarci di come hai affrontato il dato storico con il tuo film?

Quando decisi di realizzare La luna sott’acqua avevo una sola certezza: non volevo fare un reportage o un film storico sul Vajont. Volevo che emergesse la contemporaneità di quella storia, la vicenda di un paese a cui è stata rubata la luna. Non è una metafora astratta: tra le tante conseguenze del disastro a Erto e Longarone, ce n’è una singolare. Quando fu costruita la diga – che per ragioni geofisiche non avrebbe dovuto sorgere lì– si formò una nebbia quasi permanente, al mattino e alla sera, che da quel momento impedì agli abitanti di vedere la luna nel suo splendore, soprattutto nelle notti di luna piena. Durante la mia lunga permanenza a Erto, un giorno vidi un uomo davanti all’osteria guardare il cielo e mormorare: “Ci hanno rubato anche la luna.” In quel momento capii che quella era la metafora del film, ma anche di un intero paradigma storico: il tentativo continuo di rubare la luna alle persone, di toglier loro la possibilità di guardare in alto e sognare. Ho deciso quindi di raccontare una storia in cui le persone riescono a riprendersi quella luna, anche se immerse nel fango o tra le case che cadono a pezzi. Ho un affetto profondo per gli Ertani, perché mi hanno insegnato che è possibile riprendersi la luna anche quando tutto sembra perduto. Mi ha emozionato molto quando, dopo aver visto il film, mi hanno detto di averlo amato perché dentro non c'era solo la morte.

Alessandro Negrini alla macchina da presa, accanto al direttore della fotografia Oddgeir Saether e Cristiano Cappa, il suonatore di fisarmonica del film

Un set de La luna sott’acqua con Italo Filippin, uno degli ertani protagonisti

Il tuo film non racconta solo la tragedia in cui gli ertani persero a decine i loro familiari, ma anche un’altra storia, per nulla conosciuta, di prevaricazione…

Sì, la seconda storia, il post-Vajont. Erto, il paese più vicino alla diga, sopravvisse in modo paradossale. La sua vicinanza alla diga lo salvò, perché l’onda provocata dal crollo della montagna passò quasi sopra le case. Ci furono pochi morti rispetto a Longarone, ma il paese venne comunque condannato a sparire dalle mappe. Dopo il disastro, infatti, le autorità locali e nazionali decisero –in parte lo avevano già pianificato – di continuare a sfruttare il bacino d’acqua, nonostante le vittime ancora sepolte sotto il fango. L’unico ostacolo al profitto era Erto. Così fu dichiarato inabitabile: circa 2.000 persone vennero evacuate con la forza, con i camion militari, l’acqua e la corrente furono tagliate. Ma un centinaio di abitanti decisero di tornare aggirando i blocchi stradali attraverso sentieri. Occuparono il proprio paese, diventando gli squatters di casa loro. Se compravi una mappa dell’Italia stampata dopo il 9 ottobre 1963, Erto non esisteva più, eppure c’era, grazie a quell’ottantina di persone che volevano riprendersi la luna. E hanno vinto loro, perché oggi Erto esiste ancora, è tornato sulla mappa, contro tutto e tutti.

Luciano Pezzin, ertano ed ex sindaco, protagonista del film

Negrini sul set in una casa abbandonata di Erto, in fondo Cristiano Cappa

Vuoi dire qualcosa anche sull’estetica del film? Come hai tradotto visivamente tutto questo?

Come dicevo, la mia intenzione era realizzare un film che avesse una forza capace di travalicare i confini del racconto e parlare anche alla contemporaneità, non solo nei contenuti ma anche nell’estetica. Passando molto tempo a Erto, ho avuto la conferma di una sensazione che avevo fin dall’inizio, quella di un paese sospeso, in bilico su tutto – fisicamente, sulla montagna; ma anche in bilico tra la memoria e un futuro possibile, tra la realtà e il sogno. Volevo che il film desse la stessa sensazione. Durante le mie ricerche scoprii che tra i primi abitanti di Erto c’era una comunità di galeotti mandati in esilio dalla Serenissima (in realtà erano persone “scomode” per i commerci veneziani). Questa scoperta mi colpì: persone abbandonate dalla vita, mandate in un luogo abbandonato dalla storia e dalla politica, viste come un pericolo. Era incredibilmente attuale: lo straniero che arriva, percepito come minaccia. E che poi invece diventa promessa, perché trova l’acqua, scava pozzi, ricostruisce. Ho pensato che nei sogni degli ertani continuassero a vivere questi personaggi. L’elemento onirico – che è un po’ la mia cifra stilistica e che qui ho creato con il bravissimo sceneggiatore Fabrizio Bozzetti – si è rafforzato in questo film che oscilla continuamente tra questi due livelli, mostrando come la luna rubata resti un sogno che non muore, che continua a essere sognato, non solo dagli Ertani.

Alessandro Negrini a Erto con l’attore Janez Skof

Parliamo dell’accoglienza al film. Che tipo di vita ha avuto dopo l’uscita?

È stato un percorso bellissimo, che ogni volta mi emoziona. Il film sta girando in tutta Italia e all’estero. In Sardegna ho scoperto che la parola erto in sardo significa “ferito”: una coincidenza meravigliosa. Ovunque vada mi accorgo che il film risuona nel pubblico in modi diversi ma con una costante, perché ovunque esistono frane – fisiche o metaforiche, collettive o personali. Chi di noi non è “franato” almeno una volta nella vita? Chi non si è ritrovato nel buio, quando tutto sembrava crollare? Vedo ovunque una risposta intensa, piena di emozione, anche se scopro che il Vajont è poco o mal conosciuto. È un film che vive, come direbbe Silvano Agosti, “semiclandestino”, ma che non si ferma, un po’ contrabbandiere.

Spieghiamo meglio: il film non è stato distribuito nelle sale, giusto?

Sì, non ha un vero distributore. C’è una casa di produzione, Incipit Film, che ne cura la diffusione, ma senza la forza di una distribuzione commerciale. Eppure il film sta girando come se ce l’avesse. Il vero distributore de La luna sott’acqua sono le persone: i circoli, le associazioni. Mi hanno contattato per proiettarlo i No TAV della Val di Susa, sarò lì, a d Almese (TO), il 23 ottobre. È un piccolo miracolo di cui sono molto orgoglioso. Mi commuove vedere che, mentre tanti film, anche bellissimi, si spengono dopo due settimane di programmazione, questo continua a respirare, come se qualcosa gli soffiasse dietro. L’ANPI, oltre a sostenermi, mi ha invitato spesso a proiettarlo, così come le scuole, che continuano a organizzare incontri e visioni.

E hai ricevuto anche numerosi premi, in Italia e all’estero.

Sì. Il primo premio l’ho ricevuto in Inghilterra, al Crossing the Screen - Eastbourne International Film Festival, dove mi chiedevo cosa potessero capire del Vajont, invece è stato un riconoscimento che mi ha toccato profondamente. Ora siamo a dieci premi internazionali. Abbiamo vinto l’Ischia Film Festival, il Festival di Cefalù, siamo stati al Docs Ireland – l’unico festival interamente dedicato al documentario in Irlanda – e di recente in Portogallo, in Brasile, al Portobello International Film Festival di Londra, che quest’anno festeggiava il trentesimo anniversario. Vedere la reazione del pubblico londinese è stato emozionante: uno dei momenti più intensi è stato quando, durante la proiezione, gli spettatori hanno applaudito nel mezzo del film, al passaggio in cui il sindaco Luciano, rattristato ma mai davvero sconfitto, dice che nessuno si sarebbe aspettato che, al cinquantesimo anniversario del Vajont (il mio film va dal cinquantennale al sessantennale), il Presidente della Repubblica – all’epoca Giorgio Napolitano – non si presentasse, e mandasse al suo posto il Presidente del Senato, allora Pietro Grasso. Luciano commenta: “Lui ha mandato il vicepresidente, e allora io mando il vice sindaco”. Quando gli inglesi hanno sentito quella frase, hanno applaudito: è stato un momento che mi ha commosso. Perché quello di Luciano era percepito come un gesto di rivolta civile universale. Ogni volta che succedono cose del genere, chiamo gli Ertani e li rendo partecipi, come era già accaduto a Napoli, alla première al Napoli Film Festival. Anche lì ci fu un applauso nello stesso punto, un applauso di riscatto. Uno dei premi a cui tengo di più è il premio come miglior film al Sibillini Film Festival, nelle Marche, dove La luna ha vinto sia come miglior documentario sia come miglior film di finzione, superando entrambe le categorie. Proprio secondo i miei desideri, tanto che la definizione che mi piace dare del film è “docu-sogno”, perché è un documentario (se lo è), ma è un documentario che, oltre al reale, documenta l'intangibile, l'inconscio collettivo.

Premiazione al Sibillini Film Festival, Miglior Film

Non solo nella tua opera incontri grandi fatti storici, politici, sociali - ne La luna sott’acqua come nei due tuoi film precedenti dedicati al conflitto tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda - ma sei un attivista in prima persona e porti avanti anche altri tipi di attività per approcciare tematiche sociali e politiche. Ricordo per esempio un tuo laboratorio sul tema del confine svoltosi a Cipro, e la tua direzione artistica della Festa del Cinema dei Diritti Umani di Cosenza. Puoi dire qualcosa su queste attività?

Fui invitato a Cipro da una Associazione di architetti, Urban Gorillas, in quella terra sospesa e ferita, dove un muro taglia ancora in due la città di Nicosia. Lì nacque Disorientando i confini, un laboratorio in cui chiedemmo ai partecipanti di andare tra i quartieri greci e turchi, di fermare le persone e domandare loro di ricordare una musica, una canzone legata a un sogno dimenticato. Poi, in quel preciso istante, quella musica veniva ritrovata e fatta risuonare nelle orecchie di chi l’aveva evocata, mentre una telecamera ne raccoglieva soltanto gli occhi - occhi che ascoltavano la memoria. Tutte quelle melodie, intrecciate, divennero la colonna sonora dei sogni dimenticati, e furono suonate proprio là, dove il filo spinato divide Nicosia greca da Nicosia turca. Da quel confine, i partecipanti lanciarono gomitoli di lana, e i fili furono raccolti dall’altra parte: i corpi iniziarono a danzare, intrecciando nemici in un unico ritmo. La sera, proiettammo Tides da due tetti, uno per ogni lato del muro, e subito dopo, gli sguardi di chi aveva ascoltato quella colonna sonira. I militari arrivarono per fermarci, ma era già troppo tardi: avevamo già, davvero, disorientato i confini.

E che cosa hai fatto in particolare in questi anni per la causa palestinese, che oggi per fortuna ha portato a impegnarsi milioni di cittadini in tutto il mondo?

Tutto ciò che faccio è intrecciato al mio cinema (o viceversa), e nasce da una convinzione personale: non ci si può dichiarare artisti se si è privi di empatia verso gli ultimi. Che senso ha citare o mettere in scena Shakespeare, Neruda, o De André se poi chiudiamo gli occhi di fronte a un genocidio trasmesso in diretta? Mi sconvolge vedere artisti che non sentono il bisogno di empatizzare pubblicamente con chi, nella realtà, incarna ciò che raccontano sul palco o sugli schermi. In Re Lear, Shakespeare scrive: “Sono tempi bui quelli in cui i folli guidano i ciechi”. Come si può portare in scena una frase così potente e, allo stesso tempo, comportarsi come quei ciechi che si lasciano guidare dai folli? Come si può raccontare la bellezza ignorando l’abominio? C’è un’immagine che mi ossessiona: quella dei musicisti del Titanic che, per ordine degli armatori, continuano a suonare mentre la nave affonda. Oggi siamo tutti sul Titanic, e troppi continuano a suonare come se nulla stesse accadendo, fingendo che l’umanità non stia affondando. L’arte che non sfida più la realtà, che non cerca di salvarsi dalla tragedia ma la accompagna con una colonna sonora dolce e inoffensiva, è un atto di resa estetica e morale. Per questo un anno e mezzo fa ho scritto una Lettera agli artisti e agli intellettuali, nella quale chiedevo a cosa servisse l’arte e a chi è indirizzata se resta muta, cieca e sorda davanti a ciò che ci accade intorno. Mi rispose per primo lo storico Angelo D’Orsi, con grande entusiasmo. Da quel dialogo nacque un’amicizia e decidemmo di fare qualcosa di concreto, non solo un appello ma un evento: GazArt, che si tenne al Teatro Villa Lazzaroni di Roma. GazArt vide partecipare  artisti, musicisti, attori, cittadini comuni, tutti uniti dal desiderio di dire “non in mio nome”. Ognuno portò un testo o un intervento legato alla Palestina. Parteciparono Laura Morante, Massimo Wertmuller, David Riondino, Ascanio Celestini, Daniela Poggi, il musicista Lucio Matricardi, Vauro, Carla Carfagna, Arianna Porcelli Safonov, Claudio Silighini, Laura Frascarelli, Moni Ovadia, giornalisti come Raffaele Crocco e molti altri. Ci fu una risposta da parte di molti artisti e intellettuali, ma accolta dal silenzio quasi totale, non facemmo “notizia”. Avevamo un ufficio stampa, eppure la stampa ci ignorò: solo «Il Fatto Quotidiano» pubblicò un articolo, e «il manifesto» dedicò una vignetta di Maicol & Mirco. Oggi, per fortuna, molti artisti sembrano essersi risvegliati – forse tardi, ma meglio tardi che mai, perché ogni voce serve. Quando lo facemmo noi, fummo ignorati o accusati di antisemitismo, di essere filo-Hamas. Ma rifarei tutto, perché credo che il silenzio sia la forma più grave di complicità.

Gaza - Foto Eloisa D’Orsi

Laura Morante a GazArt

Davvero vi hanno tacciato di antisemitismo? Che in effetti è stato il refrain mediatico del tentativo di difendere Israele.

Sì, ho perso spettacoli e occasioni di lavoro: alcune date mi sono state cancellate, e ufficiosamente mi è stato riferito che la motivazione era proprio quella – che avevo “fatto un casino”, che ero portatore di elementi divisivi e antisemiti. Non voglio fare la vittima, perché non mi piace, ma è un fatto che chi è salito su quel palco ha pagato per un anno e mezzo, chi più chi meno. Tuttavia, non si può agire diversamente. Se non si prende posizione, le parole che diciamo, i film che realizziamo, le canzoni che cantiamo non valgono nulla: restano vuote, di più: ipocrite. Venendo a questi giorni, a questa risposta sorprendente e potente degli italiani – una mobilitazione come non si vedeva da tempo – è stato emozionante vedere una cittadinanza che ha finalmente capito che chi dovrebbe rappresentarla non la rappresenta davvero. Se lo Stato rappresentasse la cittadinanza avrebbe difeso i partecipanti alla Sumud Flotilla, invece si è permesso ad uno Stato occupante di commettere atti di pirateria verso propri connazionali

L’associazione “Siamo ai titoli di coda”, che raccoglie li professionisti del cinema e dell’audiovisivo italiani, si sta muovendo molto in questa direzione, e credo sia un segnale molto importante.

Sì. È altrettanto fondamentale che gli insegnanti, i docenti – che possono essere i veri custodi della memoria collettiva - aiutino a far capire che tutto questo è già accaduto. Ciò che studiamo nei libri non è un archivio polveroso, ma una finestra sul presente: La mostruosità non è un incidente del passato. La mostruosità si è sempre ripetuta e si sta ripetendo. Ai tempi del Vajont c’era un’unica intellettuale, Tina Merlin. Raccontare il Vajont oggi serve proprio a questo: a capire cosa possiamo fare nella realtà presente. Perché quel racconto non parla solo del passato, ma di ciò che ancora è.  E quel racconto risuona negli occhi di chi lo guarda e resiste, di chi ancora dice “No”, nella sua vita e nel suo presente, tocca le esperienze individuali di sconfitta e di resistenza, e addita un potere che continua a tracimare oltre il diritto e la giustizia. Come l’acqua di quella diga.

Grazie Alessandro.

Prossimamente anche a Almese (Val Susa, TO), Grosseto, San Remo, Cattolica, Pesaro, Massa Carrara, Milano

"La luna sott'acqua" è una co-produzione Italia - Slovenia Prodotto da Incipit Film e Casablanca Film, sostenuto da Friuli Venezia Giulia Film Commission, Film Commission Torino Piemonte, RTV Slovenija, Media Development Fund, Mic Ministero della Cultura Italiana

Regia: Alessandro Negrini.
Produzione: Incipit Film, Casablanca Film.
Sceneggiatura: Alessandro Negrini e Fabrizio Bozzetti. Direttore della fotografia: Oddgeir Saether
Musiche originali: Andrea Gattico
Scenografia: Barbara Kapely.
Montaggio: Beppe Leonetti Suono Havir Gergolet
Montaggio sonoro: Francesco Morosini