Manuela Morgaine, un cortocircuito tra mito e contemporaneità

In concomitanza con il premio ex aequo al miglior lungometraggio riportato all'edizione 2016 dell'On the Road Film Festival del cineclub Detour di Roma, pubblichiamo la conversazione realizzata con Manuela Morgaine nel 2015 in occasione del passaggio allo stesso festival di Foudre, in collaborazione con Artdigiland. Film "monstre" di 4 ore, Foudre esplora in maniera profonda e poetica le mitologie e i fenomeni legati al fulmine, collegandoli all'energia umana, all'amore, all'eros, alla melancolia, alla guarigione, alla danza. 

Intervista di Silvia Tarquini, in collaborazione con Alessandro Poggiani

Prima di Foudre facevi teatro, letteratura, ti occupavi di arti visive...

Ho fatto la scrittrice per tanti anni, ho diretto o una compagnia di teatro, che ho ancora, si chiama Envers Compagnie, con la quale faccio performances. Ora sono anche artista visiva, lavoro spesso alla radio, e con France Culture, quindi ho sempre lavorato con i testi, la voce, l’immagine, la lingua, anche la scultura, che è molto importante per me. Forse Foudre viene anche dal tentativo di  mettere insieme tutte queste forme, dalla combinazione di tutte queste arti che, secondo me, parlavano in un modo troppo chiuso. Cercavo una forma di arte totale, nel senso wagneriano. Nel cinema puoi mettere musica, puoi fare Opera, puoi fare Teatro, puoi scrivere, puoi lavorare sull’immagine, sulla performance, puoi fare tutto. Anche la radio... tutta la banda sonora di Foudre è stata realizzata alla radio, dove avevo amici e quindi ho potuto registrare in modo professionale perché non avevo avuto i mezzi per portare sul set un tecnico del suono. Sui set non c’era nessuno a parte me e la mia macchina da presa, ho rifatto tutto il suono alla radio in un secondo momento. In Foudre ci sono tutti i mezzi con cui avevo lavorato negli anni precedenti.

Di fatto come ti sei avvicinata al cinema? Hai fatto delle prove, dei tentativi? 

Ho fatto nove film. Il primo partiva da un testo di Marcel Schwob, un autore francese non molto conosciuto. Era un film 16mm in bianco e nero, del 1994, quando ero borsista a Villa Medici, un poema cinematografico. Poi ho fatto Va, un omaggio alla fuga di Casanova dalla prigione dei Piombi, un ambizioso film di 22’: una parte muta e una parte eseguita in diretta, una performance, con un rumorista davanti al pubblico. Era un cine­performance, sia cinema sia performance. Poi ho fatto A l’Ouest - On the Wild Side, un viaggio nell’Ovest degli Stati Uniti, un documentario molto classico su quattro artisti visivi americani. Poi un documentario molto lungo ‒ di 94’ ‒ che in francese si intitola Si une hirondelle ne fait pas le printemps, laquelle?, frase di Michel Foucault. È un film sugli oracoli, perché sto lavorando da più di dodici anni, basato su una mia performance che si chiama Orakl. Sono andata in tutti i luoghi oracolari del Mediterraneo ‒ Cuma in Italia, Didyma in Turchia, Delphi in Grecia ‒ e ho fatto anche una ricerca sul perché nel mondo siano stati scelti questi posti per fare gli oracoli.

Che cosa hanno in comune questi luoghi?

Ho scoperto che si trovano tutti su una solfatara, ­ dove c’è presenza di zolfo. La Sibilla di Cuma stava lì, nel fumo dello zolfo, che le dava vertigini, la faceva entrare in stato di trance. A Didyma, in Asia Minore, c’è zolfo, e fumo che esce dalla terra. Stessa cosa a Delphi. Sono terre che hanno odori molto forti, un carico molto forte. Mi sono interessata a questa mitologia della terra e a questi fenomeni della predizione del futuro, letto da donne in trance che respirano la terra. Trovavo tutto questo molto interessante e teatrale, e ho fatto un documentario sui luoghi oracolari del Mediterraneo. Il film mi ha portato alla performance Orakl. Il cinema è sempre legato ad altre arti.

C’è un legame fra questa ricerca sugli oracoli e il fulmine, che è il tema di Foudre?

Quello che accomuna tutti i miei film è il riferimento al mito. In Foudre c’è Baal, il Dio Baal, c’è Saturno, ci sono tutti gli dèi antichi. L’attenzione alla mitologia mi viene dalla mia passione per Pasolini, per Medea, per Herzog, per tutti i registi che hanno lavorato con i miti. Provo a portare il mito nella nostra modernità, a far vedere che siamo fatti di miti, e che abbiamo bisogno di miti. E poi c’è anche la passione per le forze della natura, come la solfatara. Mi interessava molto l’energia del fulmine, perché il fulmine è luce. La luce è cinema, è l’origine del cinema. Sono sempre le origini che mi interessano, delle cose, dei fenomeni.

Parliamo di Foudre, come è diventato un progetto, come si è sviluppato in un film di tre ore e cinquanta minuti?

Prima di tutto bisogna dire che la parola “foudre” è stata una guida, una “musa”. Questa parola in francese è molto forte, noi diciamo “coup de foudre”, colpo di fulmine.

Anche noi...

Questa parola mi ha suggerito la struttura in quattro stagioni, perché il fulmine è un elemento naturale. Avevo visto Andrej Rublëv di Tarkovskij, costruito non in quattro stagioni, ma in quattro parti. Sono affascinata dall’incredibile struttura delle opere di Wagner, come Tristan und Isolde, come la tetralogia, che è un’opera surdimensionata, elemento che ho sempre amato, in Herzog, in Fellini, in Kusturica... Artisti che hanno un diverso senso della durata. Ho capito che quello che cercavo era un eccesso di cinema. Così è arrivata l’idea delle quattro parti. Poi è stato importante Parajanov, le sue strutture erano molto vicine alla natura, quindi ecco le quattro stagioni. In seguito ho inventato un Dio per ogni stagione: per l’autunno Baal, dio semitico della tempesta, a cui corrispondevano anche il controllo della fertilità e della fecondità, nel film è un cacciatore di fulmini; Saturno, che personifica l’inverno, uno psichiatra, specialista della melancolia, che cura con l’elettricità. Per la primavera ho trovato un personaggio incredibile, Symeon, uno che è stato fulminato sulla colonna sulla quale si era ritirato in eremitaggio.

Uno stilita...

Sì, eremita su una colonna per quarant’anni. Studiando in Siria il personaggio di Symeon ho scoperto l’esistenza della Kama, il frutto di Allah, ma non voglio svelare il mistero di questo tartufo magico che cresce nel deserto una volta all’anno, in primavera, lì dove è caduto un fulmine. Con l’estate volevo parlare del “coup de foudre”, dell’amore fulmineo e potente tra due creature. Più che di un uomo e una donna, volevo parlare di Adamo ed Eva, del P­­­­­aradiso. Ho riletto La Dispute di Marivaux e lì ho trovato qualcosa di molto interessante che mi faceva sentire l’estate, il calore dell’estate, dell’amore, la volupté… Marivaux inoltre mi permetteva di cambiare secolo; grazie a questi personaggi leggendari potevo andare da un secolo all’altro, dall’antichità di Galeno, il medico arabo dell’antichità siriana, a Marivaux, e cambiare Paese, andare in Guinea-­Bissau, in Africa, assistere ad un culto Kassara che si svolge oggi, poi andare nell’epoca di Symeon lo stilita, il IV secolo avanti Cristo... Il susseguirsi delle stagioni fa pensare all’eternità, l’idea poteva supportare il tentativo di muoversi liberamente nel tempo, nei Paesi, attraversare vari personaggi, con un tema in comune.

Nel tuo film i personaggi hanno una doppia identità, una contemporanea e una mitica. Il cacciatore di fulmini Baal oggi è un metereologo e un dj, lo stilita è un archeologo, Saturno è uno psichiatra...Come sei riuscita a passare da una dimensione all’altra?

Ho cercato degli elementi che facessero da raccordo: le automobili e gli orologi. Ogni personaggio ha un’automobile, cosa che porta lo spettatore nel tempo moderno, presente. L’automobile del cacciatore di fulmini è molto presente in tutto l’inizio del film, viaggia su un’autostrada di oggi, allo stesso tempo però lui racconta di essere un Dio. Baal ha un orologio le cui lancette girano velocemente, senza mai fermarsi. È interpretato dal cantante e compositore Rodolphe Burger. Anche Saturno ha un’automobile, ma parla della barca sulla quale era nel tempo antico, e la barca si vede sempre. Passo da una dimensione all’altra, creando la leggenda di uomini che esistono oggi, che esercitano una professione, e nello stesso tempo sono dèi mitologici. Per concludere sugli orologi, quello di Saturno è sempre fermo al crepuscolo, l’ora in cui tutti entriamo in depressione quando la luce del cielo scende. Il suo tempo è quello della depressione, della melancolia; per tutto il film il suo orologio è fermo alle sei meno un quarto, l’ora del crepuscolo. Perché avevo chiesto a tutti i suoi pazienti: «A che ora ti senti male?». E tutti hanno risposto: «Alle sei meno un quarto». Invece il metereologo dei fulmini mi diceva sempre: «Sai, non guardo mai l’orologio e il mio cuore accelera quando vado verso il fulmine». E ho avuto l’idea di un orologio che andava velocissimo. Per risponderti anche su Symeon, lui è archeologo, è il suo vero mestiere, non è un attore, come gli altri. Non c’è nessun attore nel film a parte Azor e Églé de La Dispute di Marivaux. Symeon è archeologo, e quindi il suo orologio va indietro, prova a andare indietro nel tempo. Si vede che il suo orologio cammina all’indietro. Azor, il “fulminato d’amore”, l’innamorato, ha l’orario dipinto sull’occhio, dice che “l’amore è un tempo morto”, quindi il tempo è fisso sull’occhio, non si muove, perché il tempo non esiste più quando ami. Églé non ha orologio, è ­ l’unico personaggio che non ha orologio perché è una donna e noi, quando siamo appassionate, accettiamo di perdere la testa.

Vuoi spiegare meglio cosa vuol dire “cacciatore di fulmini”?

Pensavo che fosse un mito, ma è un vero mestiere, e ho conosciuto uno di loro. Lavora per Meteo France, il servizio meterologico. In Francia le compagnie dell’elettricità lo chiamano per cercare di capire dove potrebbe cadere un fulmine in caso di temporale, così loro possono essere lì subito per riparare le interruzioni di corrente elettrica. Lavorano così, voglio dire... è un mestiere vero e proprio. È una cosa che non si sa, ce ne sono 22 in Francia.

Cosa fanno esattamente?

Sono dei meteorologi, fisici e spesso anche appassionati di fotografia e video. Si recano dove è caduto un fulmine, lo studiano. Scattano foto, lo filmano. Sappiamo qualcosa in più dei cacciatori di tornado che operano negli Stati Uniti, sono più conosciuti, ma ci sono 150 cacciatori di fulmini nel mondo. Io credo di aver scelto il più bravo in Francia, Alex Hermant. Le immagini dei fulmini che si vedono nel film sono sue, e sono straordinarie. Ho cominciato il film perché sapevo di poter avere queste immagini. Ho comprato trent’anni di archivi di Alex Hermant. Ci sono fulmini di ogni tipo. Per esempio, per il racconto di Samy Haffaf, che è stato colpito da un fulmine in Tunisia, sul mare, avevo bisogno di un fulmine sul mare. Naturalmente ho dovuto lavorare molto in color correction, per dare continuità al film.

Puoi dirci di più di questo archivio?

Si tratta di trent’anni di lavoro di un solo uomo. Lui è l’operatore del 15 o 20%  per cento di Foudre. Ha accettato che le sue immagini venissero rielaborate. In trent’anni ha usato 25 differenti tipi diversi di videocamere. La parte iniziale del film, nella quale si vedono i fulmini attraverso l’automobile in viaggio, è completamente sua, non c’è una sola immagine mia. È lui che guida, il volto non si vede. Aveva inventato un sistema per fissare la videocamera. Viaggiava per 20, 30 ore aspettando il fulmine e così riusciva a catturarlo. È un artista geniale a mio avviso. Il lavoro di post­produzione è stato enorme, abbiamo rifatto tutti i neri per uniformarli. A volte abbiamo addirittura trasformato in diurno qualcosa che era stato girato di notte. Ci sono voluti tre, quattro annidi lavoro solo per questo.

La sequenza iniziale fa pensare a David Lynch. Non solo per l’automobile che viaggia al buio, ma per la dimensione visiva in generale. Ho pensato che era bello come un film di Lynch, ha un impatto visivo formidabile, misterioso.

Lost Highway era esattamente il mio riferimento. Ho rifatto tutti i neri di quelle immagini di Alex Hermant, ho messo più luce e modificato la velocità. Quest’ultimo aspetto è stato molto importante, perché lui guida ad una velocità molto alta.

Non sembrerebbe...

Perché è notte.

Forse anche per la voce, che dà un ritmo molto meditativo.

Sì, la voce e la musica. Il rapporto con i compositori è stato fondamentale. Senza il rapporto con la musica, Foudre non esisterebbe. I miei due compositori hanno lavorato con me per dieci anni: Philippe Langlois e Emmanuel Hosseyn During. Per la parte orientale, ho lavorato con un iraniano, ma tutta la musica elettronica è stata fatta con suoni di fulmini, e rilavorata da Philippe Langlois.

Perché Baal non è interpretato da Alex Hermant ma dal musicista Rodolphe Burger?

Perché Hermant aveva queste immagini straordinarie, ma non voleva essere visible nel film. Ho cercato una voce di roccia, di terra, e ho trovato Burger… Rudolphe Burge è un grande musicista rock e quindi poteva diventare DJ Baal, poteva fare musica. Lo vedi alla fine del film con la sua chitarra. Alex Hermant “è” le sue immagini. Lui voleva essere presente con le sue immagini.

Quella di Burger  è una voce straordinaria… Un musicista, un cantante, con la voce sa creare un mondo.

Il pezzo iniziale è stato un grande lavoro. È un testo su tutte le cose che non si devono fare quando ci sono i fulmini. Abbiamo fatto un’improvvisazione alla radio, come ti ho detto tutte le voci le ho fatte alla radio. Per far capire a Rodolphe come doveva dire il testo, facevo io degli esempi. Poi ho sentito le nostre due voci insieme e ho pensato che fosse meglio che ci fosse una doppia voce, quella di un uomo e quella di una donna. La mia voce inizialmente non ci doveva essere. Poi mi sono detta se la mia voce si sentiva all’inizio, con il cacciatore di fulmini, dovevo esserci anche dopo, dovevo essere una voce che guida, che apre le stagioni. Quindi la mia voce è come un prologo per ogni stagione, la voce che spiega la stagione al pubblico.

Come hai lavorato al testo del film?

Foudre è completamente scritto, è stato scritto e riscritto tante volte. Le parole di Saturno, di Baal, di tutti i fulminati, di tutti i pazienti melancolici, sono le loro vere parole. Ho fatto delle interviste, come fai tu, per ore, per anni, con ciascuno, ho fatto delle trascrizioni, e poi loro le hanno recitate...

Hanno ridetto quello che tu avevi scelto? E sono stati capaci di fare questo?

Sì, perché si non trattava di recitare davanti alla macchina da presa, eravamo alla radio e sentivano il testo perché proveniva da loro stessi.

E poi, come hai messo l’audio insieme le immagini? Perché nelle immagini i fulminati parlano, no?

No, mai.

Hanno la bocca chiusa?

Non parlano mai. Nel film solo Azor e Églé parlano “in diretta”. Non c’è una sola parola in diretta.

Incredibile! Nella mia memoria loro parlano, sembra un’intervista.

No, è tutto in voce over. Innanzitutto sapevo di non poter chiedere a un non-attore di recitare davanti alla macchina da presa, “essere” fulminato e allo stesso tempo parlare. Mi sono detta che nelle immagini dovevano essere solo un corpo, completamente liberi. Potevano ballare, come la fulminata che sta sulla sedia a rotelle... era libera di ballare, di muoversi. Durante le riprese erano dei corpi liberi e poi, quando hanno registrato la voce, non avevano altro a cui pensare.

Spieghiamo le scene dei “fulminati”. Hai scelto di far rivivere la propria esperienza a delle persone che sono state colpite dal fulmine. Come ti è venuta quest’idea?

Studiando la melancolia sono andata in molte cliniche e ho chiesto di vedere tutti i trattamenti. Sono andata senza videocamera, solo a vedere. C’era un trattamento, che in francese si chiama “le drame remémoré”, per persone che hanno vissuto un dramma molto forte, come un incidente aereo, una guerra. C’erano persone che hanno visto il loro compagno buttarsi dalla finestra… degli shock molto violenti. Per guarire questo trauma ‒ che torna tutti i giorni, come un’immagine ricorrente ‒ c’è un metodo in cui viene chiesto alle persone di interpretare quella scena, ripensando a tutti i propri movimenti, mentre la famiglia dice: «Gira pagina. Dimentica...». Da una parte, si chiede alle persone traumatizzate di ricordare più dettagli possibile e, delle volte, quando è possibile, si porta la persona sul luogo in cui è successo il dramma, per ripeterlo; dall’altra, si propone la possibilità di dimenticare. Generalmente si verifica una catarsi. È una terapia molto forte, che funziona. Mi ricordo anche del film di Ari Folman Valse avec Bachir, che mi ha molto impressionato. Quando era militare in Israele Folman ha visto delle cose atroci a Sabra e Shatila, e ha deciso di fare un film sulla sua psicoterapia… La materia veramente viva del film è la terapia. Pensando alla forza di quest’opera e a quelle terapie ‒ che ho visto, perché ­ho potuto assistere a due casi ‒ ho pensato che poteva essere interessante, con i “fulminati”, il fatto di portarli sul posto in cui era successo il fatto per rifare, rivivere la scena. Poi, con effetti speciali fatti in casa, ho messo anche il fulmine. Le scene dei fulminati si ripetono tutte due volte. Perché, per una persona traumatizzata, la scena si ripete continuamente e volevo trasmettere questa sensazione, far capire che si tratta di una scena che loro rivivono ogni giorno, continuamente. Sopravvivere a un fulmine vuol dire subire uno shock incredibile, ritrovarsi nudi a duecento metri da dove si era, nudi perché il fulmine ti toglie tutti i vestiti. Ho trovato queste ripetizioni molto cinematografica, anche se tutti ‒ anche il mio produttore ‒ mi hanno fatto la guerra per toglierle. Tutti gli amici che assistevano al montaggio mi dicevano: «Ma questo l’hai già detto! Ma questo l’hai già fatto. Ma questa scena abbiamo la sensazione di averla già vista!»­ e io dicevo «L’ho fatto apposta…». Mi dicevano: «Non puoi fare cinema con la stessa scena due volte», «Hai mai visto un film in cui c’è la stessa scena due volte?». E io: «Guarda, c’è una variazione, non è identica». È stata “una guerra”, molto dura. Anche con la montatrice ci siamo quasi “ammazzate” per questo. Ma i fulminati, quando hanno visto il film hanno pianto, tutti. Per me è importante.

Ce n’è uno che rende chiarissima questa loro necessità di rivivere in continuazione il trauma. Quello che fa il benzinaio... Si capisce che lui racconta a ogni cliente, tutti i giorni, uno dopo l’altro, la stessa storia. E questo ti fa capire l’impatto che ha avuto.

È successo veramente, non è finzione. Lui era lì, ho sistemato la camera e gli ho detto: «Fai il tuo servizio con la pompa di benzina, non guardare la camera. Nel film lui è molto naturale, ripete il racconto ogni volta che arriva un cliente. Immagino l’orrore che ha vissuto. Girare il film è stato terapeutico per tutti. Dal momento che siamo andati nel posto in cui è successo, dove nessuno dei cinque era mai tornato, si sono liberati del trauma. Naturalmente ne avevamo parlato molto prima.

Quindi hai letteralmente applicato la terapia e il film ha funzionato come terapia?

Esatto. Poi, durante il montaggio, ho fatto venire il traumatologo per eccellenza, Patrice Louville ‒ che non è Saturno ma un suo collega, perché Saturno non usa questa tecnica di “dramma rimemorizzato” ‒, lo vedi titoli di coda, è uno specialista. Quando un aereo cade e all’aeroporto ci sono le famiglie che aspettano i parenti, è lui che viene mandato a parlare, a dare loro la notizia. È il massimo specialista francese di shock molto violenti. Quando ho finito il montaggio ho fatto venire quest’uomo, gli ho fatto vedere le scene montate e gli ho chiesto se pensava che, vedendo il film, loro potessero rimanere traumatizzati o disturbati. Era molto importante per me, prima di far vedere il film ai fulminati, avere la conferma di uno specialista sul fatto che non fosse pericoloso. Lui mi ha detto di essere sicuro che i cinque sarebbero stati consapevoli non solo di aver rirecitato la scena, ma anche di rivederla al cinema e che, a questo punto, tutto sarebbe diventato “esterno”. Ma io sentivo che era comunque un rischio. Per me la prima proiezione con i fulminati e con i melancolici è stata terribile. Ero in lacrime, perché avevo paura per loro, paura delle famiglie, paura delle loro reazioni. Ma è andata bene.

È andata bene anche con i melancolici?

Sì, per i melanconici la cosa bella è stata il fatto che le famiglie hanno capito meglio questo male, e il fatto che i loro cari non potevano essere in grado di spiegarglielo. Il film ha cambiato molto la vita di tutti. È stata un’esperienza umana molto forte.

Tra i “fulminati” c'è una donna, e forse la sua storia è la più particolare. Dopo il fulmine lei, pur in sedia a rotelle, diventa danzatrice, e ha il coraggio di fare cose che prima non osava fare. Puoi soffermarti sul legame tra energia e arte, tra energia e movimento, la danza… 

Florence Lancial era già danzatrice prima del dramma. Dopo essere stata colpita dal fulmine è diventata paraplegica. Nella vita reale questa donna, appena le è stato possibile, ha continuato a danzare sulla sua sedia a rotelle e ha inventato, in Francia, la disciplina della danza su sedia a rotelle. È una coreografa e dà lezioni di danza nella regione di Marsiglia. Ha partecipato alle Paralimpiadi di nuoto a Pechino ottenendo il quinto posto. Ciò che è sorprendente nel suo caso, nel dramma, è stata una sorta di raddoppiamento della sua forza, sia spirituale che fisica, dopo l'incidente. Tutti i “fulminati” dicono di aver trovato un senso più profondo della loro vita dopo essere stati colpiti dal fulmine, ma nel caso di Florence Lancial è più evidente. È stato proprio vedendola danzare per la prima volta sulla sua sedia a rotelle ‒ in un parcheggio davanti casa sua, quando ero andata a proporle di prendere parte al film ‒ che ho avuto l’idea di “coreografare” i racconti di tutti testimoni. Mi sono detta che sarebbe stato più forte che loro ricostruissero la scena del fulmine solo con il movimento, e che sarebbero stati molto più liberi di riviverla nel luogo stesso in cui era accaduto. Avremmo avremmo piazzato la voce narrante dopo, sull’immagine di questa “danza”. Si può dire che tutti i testimoni abbiamo “danzato” il momento in cui il fulmine li ha colpiti. Nel caso di Florence naturalmente c'era ancora più coreografia e abbiamo diffuso a volume molto lato, su Dune de Pila, la musica composta per questo momento del film. Abbiamo costruito per lei una pista da ballo in legno tra le dune, perché il personaggio era straordinario e potente. È stata una scena molto difficile da costruire tecnicamente; è stato necessario, senza mezzi finanziari, mobilitare i vigili del fuoco con attrezzature speciali per guidare sulle dune di sabbia. Il motivo che ha spinto questi vigili del fuoco e i carpentieri che hanno costruito la scena a partecipare gratuitamente alle riprese è stato unicamente la forza di Florence Lancial, la forza della sua storia, la sua forza mentale e fisica. Appena ho detto loro che Florence avrebbe danzato sulla sedia a rotelle nel luogo esatto dove era stata colpita da un fulmine, che glielo avevo promesso, sono stati coinvolti come me. E sono rimasti sconvolti da questa giornata di riprese. Florence Lancial ci ha dato una lezione di vita. Muoversi anche quando non ci si può più muovere. È questo è quello che più ricordo di lei come artista.

Essere colpiti dal fulmine è una cosa molto rara. E credo che sia molto bassa la percentuale di quelli che sopravvivono. Come li hai trovati?

Ci ho messo tre anni per trovarli. Li ho cercati negli ospedali. Ho avuto l’idea di andare negli ospedali che trattano le ustioni. Avevo letto che in tutti i casi di persone colpite dal fulmine il primo problema sono le ustioni. Sono andata nell’ospedale specializzato in ustioni di Parigi e poi in provincia; sono posti dove esistono camere speciali, letti coperti di grasso. Non sono molti questi ospedali specializzati, ho cercato nei loro archivi e ho trovato le persone che erano state colpite da un fulmine. Da molte famiglie ho avuto un rifiuto: «Il cinema no! È stato un dramma, non facciamo cinema su questo!». Non è stato facile, ma alla fine ho trovato le cinque persone che vedi nel film.

Hanno accettato in cinque...

Hanno accettato in sette, ma io ho fatto una scelta perché volevo che fossero come dieci dita. Cinque nella mano di Baal e cinque nella mano di Saturno.

Perché volevi che fossero delle “dita”?

Perché, nella mia storia ‒ perché non è un documentario ‒  i fulminati sono curati da Baal e Saturno. Baal li tiene nella sua mano di cacciatore di fulmini, e Saturno ne ha altri cinque nella sua mano. C’è la presenza molto importante di mani che curano. Nella prima scena, l’inverno, vedi una mano che tiene un’altra mano, la mano di un annegato, uno che sta nell’acqua, come Ofelia. La mano di Saturno lo tiene… L’idea del film è anche quella di “tirare su” le persone. Anche per Azor e Églé c’è Nevil ‒ il personaggio che porta la kama ‒ che li tira su dal diciottesimo secolo e li porta nel mondo moderno. Ma quando lui dà ad Églé la kama ‒ il tartufo magico, il  frutto di Allah ‒ tutto finisce, non c’è più il Paradiso.

Un riferimento esplicito del tuo film sembra essere Godard. L'orologio dipinto sull'occhio ricorda il corpo dipinto di Pierrot le Fou... Vuoi dire qualcosa al proposito?

Lo spirito del segmento Atomi  è uno spirito godardiano, fa riferimento esplicitamente a Pierrot le Fou. Quando Azor e Egle “fuggono” dal testo di Marivaux e fanno l’amore, nudi sulla spiaggia, poi non si rimettono i loro costumi d’epoca, ma jeans e camicie che mantengono solo i colori dei loro abiti antichi. Diventano a tutti gli effetti degli amanti contemporanei. Il riferimento al finale di Pierrot le Fou è evidente. Azor riceve un colpo, ha l'occhio blu, come il viso dipinto di Pierrot, che presto saltera' in aria con la dinamite. All'inizio del film Azor aveva un orologio dipinto sull’occhio, perché sapeva che il suo amore con Egle sarebbe finito. Tutti i personaggi di Foudre hanno una diversa percezione del tempo. Il tempo di Azor è fissato al suo sguardo di innamorato. 

Rimaniamo sul fatto che il tuo film è un’esperienza. Non è un film di fiction, non è un cinema, per così dire, “normale”. Il fatto che abbia agito come terapia, come “modificatore di vite” lo conferma.

Sì, la parola “esperienza” per me è molto forte, vorrei che il film fosse un’esperienza anche per il pubblico. Tre ore e cinquanta minuti sono di fatto una “esperienza”. Quando giravo il film pensavo già a questo, all’idea di offrire un’“esperienza” di cinema. Come quella che ho avuto io, per esempio, con Matthew Barney, le cui opere per me sono assolute, opere liriche. Anche Andrej Rublev è un’“esperienza”. Questi film lunghi sono come un affresco, qualcosa di diverso da un dipinto. L’affresco che si vede qui a Roma ‒ per il quale la gente viene da tutte le parti del mondo per vedere in Vaticano il soffitto affrescato da Michelangelo ‒ come si chiama?

La Cappella Sistina. La Cappella Sistina...

Non è che io mi paragoni a Michelangelo, assolutamente no, ma sono queste esperienze visivo-sensoriali molto forti che volevo dare al pubblico. Per arrivare a questo c’è bisogno di tempo. E infatti al pubblico dico sempre che se vogliono vivere l’esperienza devono essere pazienti. Anche se ci sono momenti duri, momenti lenti. Altrimenti non c’è esperienza. Per fare un’esperienza c’è bisogno di abbandonare le proprie abitudini. L’abbiamo fatto anche noi durante il film. Io ho fatto l’esperienza del rischio, ad esempio... Quello che ho fatto con i fulminati... portare Saturno in Africa, un’uomo che veniva dalla Guinea Bissau e che quindi tornava nel suo Paese d’origine... Non ci voleva tornare, è un medico famoso a Parigi, non è stato facile. Voglio dire che per tutti è stata un’esperienza. Tutti si sono lasciati alle spalle le loro abitudini, mi hanno dato fiducia, si sono abbandonati completamente al film. Sono stata in rapporto molto intimo con tutti i partecipanti, li ho frequentati per anni, è durato tutto molto tempo. Tutti questi anni insieme hanno fatto sì che questi volti siano completamente rilassati. Non sono come li vedi al cinema abitualmente.

Quanti anni ci sono voluti per fare Foudre?

Dieci anni. Perché, come ti ho detto, c’è voluto tempo per trovare i personaggi, per lavorare con le famiglie… Saturno ha dovuto darsi molto da fare in clinica per avere l’autorizzazione a girare scene di elettroshock. Non è che puoi andare in una clinica e fare queste cose tanto semplicemente. Per tutte le parti del film c’è stato bisogno di molto tempo. Sono andata due volte in Siria prima della guerra. Oggi tutte le immagini girate lì acquistano valore di archivio. Sono disperata, perché oggi tutti i posti in cui ho girato non esistono più, sono stati distrutti. I luoghi del sapone di Aleppo… Il luogo di Symeon, Palmira: la città è distrutta, non c’è più niente. Aleppo è distrutta. I luoghi del Bimaristan in cui ho girato le scene con i Dervisci non esistono più. Foudre, malgrado la mia volontà e le mie intenzioni, è una memoria di luoghi ormai distrutti. Mi chiedono spesso immagini del sito archeologico di Aleppo, perché ho un archivio incredibile. Anche in Africa non si può più andare. In Libia non si può più andare, in Tunisia è pericoloso. Non so se ho avuto l’intuizione che si doveva girare in questi luoghi sensibili. Era come se si preparasse un fulmine, un altro tipo di fulmine. La follia, la barbarie, la volontà di distruzione. Il fulmine di cui parlo non è solo quello del cielo. Il film lavora anche su tutto ciò che ci distrugge, sugli eccessi... Il fulmine è un eccesso del cielo. E il cinema è importante anche perché lascia una traccia.

Una cosa che ho amato molto del tuo film è l’epilogo. È bellissimo. Nell’epilogo succede qualcosa di magico, perché questa sequenza mette insieme tutti i personaggi che abbiamo visto durante il film in situazioni diverse, e separati dalle stagioni. Li mette tra l’altro in una situazione molto contemporanea, una discoteca, un po’ fluttuante, un po’ priva di senso, sembra una magia. Ed è come se noi vedessimo rappresentata lì dentro la nostra situazione umana, attuale, contemporanea. Ecco chi siamo, come siamo ridotti, come siamo feriti, come siamo sbandati. Come siamo “insieme”, ma ognuno solo. Questo finale come è venuto?

È l’unico pianosequenza del film. È venuto perché c’era un prologo, il pezzo iniziale di cui si parlava a proprosito della mia voce e quella del dj Baal. Alla fine avevo bisogno di una “scatola nera”, in francese “night club” si dice “boîte de nuit”­. Noi lo chiamiamo “la boîte”, la scatola . Quindi mi sono detta: «Come posso fare per costruire una “scatola della notte”?». La notte è ciò che ci riunisce tutti, tutti i secoli… Siamo tutti riuniti in quest tempo in cui non vediamo più, dormiamo tutti, in tutti i Paesi. La parte più difficile era portare le donne africane, ma anche i “fulminati”, che vivono in varie parti della Francia. Devi sapere che non avevo un soldo per fare il film. Poi tutti i melancolici, cosa un po’ più facile perché vivono tutti a Parigi, l’archeologo, che vive ad Israele, Saturno... Sono tutti lì. Come fare per riunirli tutti in questa scatola della notte? Realizzare questa scena mi ha quasi richiesto più energie dei dieci anni per fare il film, perché c’era bisogno di molti mezzi per i viaggi. Solo le donne dall’Africa non sono venute. Ho fatto rifare i lettini rossi del rituale, ho preso degli africani di Parigi ai quali ho fatto vedere il rituale, hanno imparato esattamente i gesti e sono venuti nel club della notte. A parte loro, tutto il resto dei personaggi si trova riunito. C’è voluta un’organizzazione pazzesca, ma fin dall’inizio avevo l’idea che l’epilogo dovesse essere contemporaneo e che dovesse svolgersi nello stesso posto che si vede per primo nel film e cioè la mente di DJ Baal. Lui all’inizio dice: «Delle volte sono DJ in un nightclub di Parigi». E mi sono detta: «Alla fine saranno tutti lì a ballare nel night club di DJ Baal. Il problema era anche come fare a far ballare un agricoltore... Una volta arrivati tutti lì non avevamo tempo per fare delle prove. Avevamo solo due ore per le prove, e altre due per la ripresa, perché potevamo usare il posto solo per quattro ore. Durante queste due ore di prove nessuno ballava, a parte Saturno e Symeon, che sono molto bravi, e Azor ed Églé, che sono attori e ballano molto bene. Anche DJ Baal naturalmente era a suo agio perché è sul palcoscenico tutte le sere.

Ci sono più macchine da presa vero?

Sì, ho chiesto anche a due amici di filmare perché volevo tre camere. Io mi sono messa su una sedia a rotelle che Saturno ha rubato nella sua clinica per una notte e ho girato come dal punto di vista della danzatrice. È per questo che vedi le immagini che girano… Godard faceva così, no? Tutto è stato filmato con grande intensità, e quando mi hanno visto girare lì con la mia camera anche l’agricoltore e tutti gli altri hanno cominciato a muoversi. Alla fine hanno ballato tutti. Anche in questa sequenza il suono non è diretto, ma fatto a posteriori col musicista­.... Volevo portare tutti questi personaggi in stato di trance e quindi abbiamo messo pochissima luce, e la musica molto forte. Azor si muove girando per terra, ha una bacchetta magica, come se la magia di questa scena dovesse rimanere anche dopo. Volevo che alla fine i personaggi uscissero di scena come nel teatro cinese. All’inizio della rappresentazione gli attori cinesi si presentano al pubblico e poi, alla fine, li vediamo uscire di scena. Anche i miei personaggi li vedi salire su una scalinata e andare via, uscire dall’inquadratura. Volevo che potesse sembrare un nuovo prologo, che ci fosse l’idea che tutto può ricominciare. È un epilogo che, nello stesso tempo, è anche un prologo.

A suivre…

Sì.