Fragilità, visioni, immanenza. Conversazione con Carlo Hintermann

Carlo Shalom Hintermann (1974) è un regista italiano, noto come uno dei “discepoli” di Terrence Malick. Dopo essersi occupato di musica, ha studiato storia e critica del cinematografo all'università La Sapienza di Roma per poi conseguire il diploma in regia cinematografica alla New York University. Ha realizzato una serie di cortometraggi, fra cui Les deux cent mille situations dramatiques, selezionato per la Biennale di Venezia del 1999, prima di girare nel 2002, Rosy-Fingered Dawn, in co-regia con Gerardo Panichi, Luciano Barcaroli e Daniele Villa: presentato anch’esso a Venezia, si tratta di un atipico ritratto di Terrence Malick narrato da collaboratori dei suoi primi tre film come Sissy Spacek, Martin Sheen, Sean Penn, Ennio Morricone e Jim Caviezel. Per The Tree of Life, quinto film di Malick che frutterà al regista la Palma d’oro nel 2011, Hintermann fa da regista di seconda unità delle riprese italiane; l’anno prima era intanto  uscito, in co-regia per la parte animata con Lorenzo Ceccotti, The Dark Side of the Sun, originale fusione fra live action e animazione e fra documentario e film di finzione che prende spunto dai disegni dei bambini di Camp Sundown nello stato di New York, affetti da una rara malattia che impedisce loro di esporsi alla luce del sole. Nel 2020 il suo primo film di finzione The Book of Vision, dove Malick figura come produttore esecutivo, apre la Settimana Internazionale della Critica di Venezia: opera complessa e polistratificata con protagonisti Charles Dance (Alien 3, Il trono di spade), Lotte Verbeek e Sverrir Gudnason, The Book of Vision è ambientato a cavallo fra il Settecento e i giorni nostri e mette in scena un’originale riflessione sulla storia della medicina e su come sono cambiati, nel corso dei secoli, i rapporti fra medico e paziente.

Quando è stata la prima volta che hai visto un film di Malick? Che emozione ne hai tratto?

Il primo film che ho visto di Malick è stato Badlands, uscito in Italia come La rabbia giovane. Stavo facendo una ricerca sul cinema americano degli anni ’70. È stata una folgorazione. Badlands mi è sembrato al tempo stesso molto radicato nella tradizione del cinema americano di James Dean, che amavo molto, e un passo in avanti enorme rispetto ai suoi tempi. Un altro aspetto che mi aveva colpito di Badlands era il salto di scala fra le inquadrature, il saltare da un totale a un macro del dettaglio della nascita di una pianta, ad esempio, un’immagine sperimentale per l’epoca. Quest’accostamento fra elementi tanto diversi mi mostrava un cineasta per certi versi spregiudicato, che già dal primo film cercava un suo linguaggio. Dopo Badlands ho visto Days of Heaven e di lì a poco uscì al cinema La sottile linea rossa, un’altra folgorazione incredibile. In quel momento lavoravo, assieme ai miei colleghi Daniele Villa e Luciano Barcaroli, alla casa editrice Ubu Libri di Franco Quadri, sufficientemente incosciente da nominare capo redattori tre ragazzi che avevano poco più di vent’anni. Il primo libro che pubblicammo per Quadri era un libro-intervista su Otar Ioseliani intitolato Ioseliani secondo Ioseliani: Enrico Ghezzi doveva fare la prefazione ma in quel momento stava seguendo il Festival di Berlino. Lo inseguii a lungo ricordandogli la scadenza della consegna per la quale già era in ritardo e finì che Ghezzi iniziò a inviarmi fax con la prefazione dalla sua camera d’albergo a Berlino nel momento stesso in cui veniva annunciato che Malick aveva vinto l’Orso d’Oro con La sottile linea rossa, cosa di cui fummo entrambi contentissimi. La sottile linea rossa è un’opera che mi ha particolarmente colpito; rare volte, solo in qualche romanzo di McCarthy forse, mi è capitato di trovare una spinta etica così forte, da darti coraggio nella vita di tutti i giorni Per fare un esempio: poco dopo aver visto La sottile linea rossa ebbi un’incomprensione sul libro che stavamo facendo su Ioseliani, e quella frase che il personaggio di Witt dice al personaggio di Sean Penn – «può farmi tutto quello che vuole ma io sono due volte l’uomo che è lei» – in quel frangente mi diede la forza per mantenere il fuoco del nostro lavoro. Dopo Badlands e Days of Heaven, La sottile linea rossa è stato decisamente un film formativo per un giovane che si stava affacciando a lavorare col cinema e sul cinema, perché per me fare libri era come fare film in fondo, e in quegli anni noi costruivamo i libri nello stesso modo in cui successivamente avremmo costruito i film. 

Terrence Malick

Terrence Malick

Come è nata l’idea di Rosy-Fingered Dawn e chi erano i tuoi compagni di viaggio in questa co-regia?

Assieme a me c’erano Luciano Barcaroli, Daniele Villa e Gerardo Panichi, che è ancora mio socio. Luciano e Daniele erano appunto miei compagni di lavoro per Ubu Libri, Gerardo si aggiunse perché avevamo studiato insieme regia a New York. Quando decidemmo, dopo l’esperienza dei libri, di passare a un documentario su un autore abbiamo subito deciso di fare la cosa più difficile, quasi impossibile, fare un film su un Malick. Attraverso Gerardo e un amico che lavorava alla Warner Bros contattammo l’agente di Malick del tempo, che ci rispose subito “no way”: Malick mai avrebbe permesso di fare un film su di lui perché notoriamente troppo riservato. Insistetti con l’agente per avere almeno la possibilità di mandare una lettera personale per spiegare a Malick cosa pensavamo di fare, e scrissi una lettera nella quale spiegavo che in realtà non volevamo assolutamente intercettare il lato personale di Malick e neanche la mitologia del regista recluso, scomparso per anni nel nulla; il nostro intento era mostrare le relazioni che Malick aveva restaurato con il cinema americano, e farlo con la voce dei suoi principali collaboratori. Questa lettera in qualche modo ha avuto il suo effetto perché Terry ha proposto di incontrarci.

Come fu il mio primo incontro con Terrence Malick? Aiutò la realizzazione del documentario?

Il primo incontro fu molto bello perché fu un incontro durante il quale parlammo di tutto, principalmente di cinema, e quasi ci scordammo che eravamo lì per proporgli di fare un film su di lui. Malick apprezzò molto il fatto che avevamo studiato tanto il suo cinema e ancor di più i legami fra il suo cinema e il cinema americano. Quell’incontro per noi fu importante anche per assicurarci che tutte le connessioni che avevamo fatto fossero giuste e coerenti. Iniziammo allora a stendere la lista delle persone che volevamo intervistare e sostanzialmente fu Malick in persona, in molti casi, a contattare personalmente gli intervistati dicendo che potevano fidarsi di noi perché il nostro era un approccio molto rispettoso. Tutti i collaboratori di Malick, conoscendo la personalità di Terry, prima di partecipare a un progetto di questo tipo cercano di assicurarsi che non ci sia un intento sensazionalistico ma il desiderio autentico di parlare di cinema. Iniziammo questa lunga serie di interviste: Arthur Penn, Jim Caviezel, Sean Pen, Sam Shepard, lo scenografo Jack Fisk, Sissy Spacek, Elias Koteas, Billy Weber che ha montato molti dei film di Malick… Era veramente un affresco entusiasmante, un’immersione nella grande stagione del cinema americano degli anni ’70. Da questa lunga serie di interviste è nato anche un lungo libro che abbiamo pubblicato per Faber&Faber nel 2016, Terrence Malick: Reharsing the Unexpected, che copre la filmografia di Malick dagli inizi fino a The Tree of Life, concentrandosi soprattutto sulle connessioni che Malick aveva ed ha con la grande tradizione del cinema americano. A mio avviso il personaggio chiave in questo fu Mike Medavoy, il primo agente di Malick negli anni ’70, quando era anche l’agente di Coppola, Lucas, Spielberg, Cimino e che poi, insieme a Malick, ha fatto da produttore esecutivo al mio film. La cosa che più mi ha colpito è accorgermi di quanto fosse presente, nella tradizione cinematografica americana, l’idea di sposare il cinema di altri registi più giovani, di sostenere film che cercano di fare qualcosa di originale. Malick ebbe ad esempio Arthur Penn come produttore esecutivo per Badlands, e un altro dei suoi mentori fu Irvin Kershner, che assieme a Malick scrisse una versione dell’Ispettore Callaghan che doveva avere Kershner come regista e Marlon Brando come protagonista, poi la Warner impose come protagonista Eastwood e Kershner si tirò indietro. Kershner, che avrebbe poi diretto il secondo film di Star Wars, L’impero colpisce ancora, fece da garante presso le case di produzione anche per George Lucas, di cui era stato insegnante di cinema, quando Lucas era agli inizi. Senza Arthur Penn per Malick e Kershner per Lucas quella ondata del nuovo cinema americano non sarebbe mai esistita. Quello che noi quattro abbiamo cercato di fare, tanto nel documentario quanto nel libro, è stato dimostrare che nulla viene dal nulla, e che, per quanto Malick sia sempre stato visto come un autore fuori dagli schemi, sia invece radicatissimo nella cultura cinematografica americana.

Rosy-Fingered Dawn - Un film su Terrence Malick di Carlo Hintermann (2002)

Successivamente hai lavorato con Malick nella produzione di The Tree of Life, che avrebbe poi vinto la Palma d’Oro a Cannes nel 2012. Quali sono stati i tuoi incarichi in quel film?

Per The Tree of Life ho fatto la regia di seconda unità della parte girata in Italia e ho ripreso anche una serie di immagini naturali girate in giro per il mondo. The Tree of Life ha avuto una gestazione bellissima, è un modello perfetto di film “espanso”, la lavorazione è durata per tanto tempo, c’era spazio per inserire nuove suggestioni, io stesso ho suggerito cose da girare e nel suggerirle trovavamo anche modo di produrle, di renderle realizzabili. Per quanto atipico e libero, The Tree of Life è stato una grande produzione, alcune sequenze erano girate in IMAX, cosa che richiedeva un impianto produttivo complicato. Ogni volta che proponevamo qualcosa di nuovo e non pianificato, con la mia società, Citrullo International, presentavamo anche le soluzioni produttive necessarie per realizzarla. Girare The Tree of Life è stata forse l’esperienza più importante della mia carriera e della mia vita, anche per il tipo di approccio al cinema: io ho un approccio molto metodico, basato sull’attesa, e mi trovo davvero a mio agio a girare immagini naturalistiche, perché la natura ha dei tempi propri. Una sequenza di The Tree of Life che ho girato è un piano sequenza di stormi che danzano; l’ho girata all’EUR. Con Terry avevamo a lungo parlato di cercare di riprendere gli stormi in un piano sequenza, e per darmi un riferimento Malick mi ha ricordato il canto quinto dell’Inferno di Dante, quei versi che paragonano il volo delle anime di Paolo e Francesca alla danza degli uccelli. Con Giancarlo Leggeri, bravissimo operatore, abbiamo fatto mesi di sopralluoghi e avvistamenti per seguire e studiare gli spostamenti degli stormi per prepararci alle riprese, acquisendo molto materiale con piccole videocamere digitali. Fuori Orario poi acquisì tutto questo materiale di ricerca, e trasmise per un’intera nottata solo di stormi! Prevedibilmente poi, quando andai a girare in pellicola con la mdp da 65 mm e pellicola costosissima, invece di arrivare tutto lo stormo che avevo immaginato arrivò un singolo uccellino che dopo una breve acrobazia se ne andò. Quella per me fu una lezione fantastica di quanto la natura non rispetti le esigenze e i tempi del cinema, e dovetti chiedere alla produzione altri giorni. Al terzo giorno gli stormi fecero per noi quello che serviva. Un’altra cosa fantastica di The Tree of Life è che molte delle riprese sono state girate dal vero, le eruzioni vulcaniche, ad esempio, sono state riprese sull’Etna e in Islanda, ed occuparmi di queste riprese per me è stato  meraviglioso. Quella parte del film, quella legata alla matericità della terra in connessione con l’universo, è un bacino enorme di concetti e di significati, forse è quello che lo rende così esplosivo. Fu entusiasmante lavorare a questo aspetto. Inoltre c’era una serie di scene iniziate negli USA e terminate qui in Europa per facilità: tantissime sequenze dei bambini le abbiamo girate nel viterbese, ma sembrano girate in Texas! Anche delle riprese con i bambini spesso mi sono occupato io. Quando ho fatto da seconda unità per altri registi mi hanno sempre affidato sequenze naturalistiche e scene con i bambini, le due cose che i registi temono e i produttori odiano. Io invece credo siano fantastiche, perché in entrambi i casi hai a che fare con qualcosa di imprevedibile, che non puoi controllare: non puoi esasperare il tempo dei bambini, innanzitutto perché il bambino non ha una capacità di concentrazione troppo lunga. Giocare con questa imprevedibilità, coglierla, lavorare con tanta preparazione e poco tempo di ripresa, per me è una cosa assolutamente entusiasmante che ho portato in tutti i miei lavori successivi. Peraltro mentre giravo The Tree of Life lavoravo anche a The Dark Side of the Sun e da Malick ho imparato tanto che poi ho portato nel mio film. Un altro grande maestro, sul set di The Tree of Life, è stato per me Jörg Widmer, che di fatto era il direttore della fotografia della seconda unità, con Lubezki che faceva la fotografia principale. Molte cose che avevo sperimentato con lui sul girato di The Tree of Life sono tornate estremamente utili per The Dark Side of the Sun.

Venendo a The Dark Side of the Sun, uscito nel 2011, come hai saputo del Sundown Camp? Come ti sei avvicinato ai fondatori e alle famiglie dei bambini malati di xeroderma?

The Dark Side of the Sun di Carlo Shalom Hintermann, animazione Lorenzo Ceccotti (2011)

Quando stavo studiando alla New York University lessi un articolo del «New York Post» sul Camp Sundown, un centro dove vivono bambini di tutto il mondo che per una rara malattia genetica non possono essere esposti alla luce del sole e hanno un’aspettativa di vita molto bassa a causa dei tumori alla pelle. Quella storia mi impressionò moltissimo. Da subito pensai che sarebbe stato bellissimo fare un film su quella realtà, ma mi accorgevo che bisognava trovare l’approccio giusto, che si trattava di una realtà estremamente delicata, del vissuto di persone che quotidianamente si confrontano con una grandissima sofferenza. All’epoca avevo 22 o 23 anni, e sentivo forse di non avere l’esperienza sufficiente per avvicinarmi a una cosa del genere: quello che volevo evitare era un approccio da reportage, in cui la curiosità sulla “vita notturna” dei bambini del campo fosse l’elemento portante. Anni dopo feci un’esperienza molto dura, un progetto per La7 sulla pena di morte in cui io gestivo la parte visiva e audio ma non ero il regista, e per quel reportage mi confrontai con detenuti che avevano ricevuto una condanna a morte ed erano in attesa dell’esecuzione. Avevano un rapporto con la morte diverso, quotidiano, continuo. La cosa che mi sorprese, entrando nelle sezioni dei Death Row di alcuni penitenziari tra i quali quello del Texas, era come, nonostante fossero rinchiusi in stanze piccolissime con la luce accesa 24 ore al giorno, questi carcerati avessero costruito una relazione con l’esterno molto piena, nello specifico con gli amici di penna con i quali avevano corrispondenze. Capii che l’uomo ha risorse incredibili e che, nonostante le situazioni contingenti, riesce sempre a costruire un mondo. Stare chiusi dentro quattro mura è una cosa che normalmente quasi non ha la dignità di una vita, invece la vita ha sempre una sua dignità. Questo per me si lega anche ai ricordi dei sopravvissuti dei campi di concentramento nazisti, un altro aspetto che ho molto seguito, data la mia appartenenza all’ebraismo. Leggendo le testimonianze dei sopravvissuti mi ha sempre meravigliato come, anche nelle situazioni più disperate, si sentisse in loro la possibilità di resistere e di ricostruire il mondo. Dopo queste esperienze, anni dopo aver letto quell’articolo del «Post», ho capito quale potesse essere l’approccio giusto per fare un film su un gruppo di bambini con una malattia così terribile: dovevo essere io a cambiare prospettiva e a entrare nel mondo di quei bambini; capire cosa significasse vivere di notte, cosa significasse per un bambino avere un orizzonte di vita tanto basso, avere un rapporto tanto profondo con la morte, perché a 5 o 6 anni già sa che vivrà fino a 12-15 anni e non oltre. Entrare nell’universo di quei bambini mi richiedeva un salto gigantesco, faticoso e doloroso, ma ero sicuro che cambiando la mia prospettiva avrei scoperto qualcosa di incredibile. Infatti nei bambini di Camp Sundown ho subito visto un’enorme vitalità. Il campo raccoglie da tutto il mondo i bambini con questa malattia, una malattia apparentemente invalidante sotto ogni aspetto, ma, stando con loro, ero io a sentire che mancava qualcosa alla mia vita, non il contrario. Tra gli ospiti di Camp Sundown c’era un legame comunitario straordinario, che non ho mai trovato altrove. Da subito decisi che i bambini avrebbero scritto la sceneggiatura della parte animata e ogni volta che davo loro la responsabilità di scrivere una scena arrivavano con delle idee incredibili. Grazie a loro il film sviluppa una cosmogonia unica, con personaggi quasi divini come “Padre-della-notte” o “Madre-del-giorno”: sotto i miei occhi i bambini mettevano tutte le loro paure e le loro proiezioni nei racconti che andavano a comporre. Così facendo l’animazione è diventata da subito un documentario dell’animo dei bambini, la testimonianza di qualcosa di non raccontabile seguendo semplicemente la loro vita. Le loro proiezioni, nei disegni e nei racconti, erano in un certo senso il documentario della loro anima. Per The Dark Side of the Sun il fumettista Lorenzo Ceccotti mi ha accompagnato nel character design e in tutta la realizzazione della parte animata. Lorenzo e io di fatto ci siamo messi ad andare a lezione di vita con i bambini di Camp Sundown, come se noi fossimo due studenti e il nostro insegnante un bambino di cinque anni. Avere come insegnante un bambino è una delle esperienze più formative che un adulto possa fare, e i bambini di Camp Sundown furono insegnanti veri. Il film è il frutto di questo apprendistato, mio e delle persone che hanno collaborato: capire che in fondo nessuna condizione di vita è priva della possibilità di trovare l’umanità, il riscatto.

Come  hai conosciuto Ceccotti e come avete lavorato a quest’opera “ibrida”? Quale tecnica avete utilizzato per le animazioni? Avevate qualche modello, soprattutto per quanto riguardava il passaggio da animazione a “live action”?

The Dark Side of the Sun di Carlo Shalom Hintermann, animazione Lorenzo Ceccotti (2011)

Con Lorenzo ci conoscevamo da molto tempo, siamo cresciuti insieme grazie a degli amici in comune e io sono sempre stato molto affascino dal suo talento sconfinato.Aveva curato i titoli di testa di un mio documentario, Chatzer - Volti e storie di ebrei a Venezia, realizzando una sequenza animata molto bella. Da quel momento in poi abbiamo condiviso anche uno studio, fu un momento incredibile nella nostra vita di creativi: noi della Citrullo International, società di produzione cinematografica, assieme a Superamici, gruppo di fumettisti di cui Lorenzo fa parte, con Dottor Pira, Ratigher e al tempo Gianluca Abbate. Fu un periodo di creatività “selvaggia”: avevamo mille progetti, ci confrontavamo su mille cose. Con Lorenzo avevo lavorato fianco a fianco per H20, un lavoro sperimentale a cui tenevo molto, avevamo mescolato già lì, con un lavoro di compositing, elementi di animazione e immagini che avevo realizzato io dal vivo. Per quel progetto abbiamo realizzato una sorta di universo al microscopio in cui degli esserini inventati, dei microrganismi se vogliamo, vivevano in ambienti naturali che io riprendevo dal vivo. H20 in realtà aveva due facce: da una parte un cortometraggio che girò molti festival, dall’altra una performance in cui con la musica dal vivo animavamo personaggi dal vivo. Per la versione performativa ci appoggiavamo a dei pattern di animazione, ma li sceglievamo con delle variabili, costruendo una storia narrativa nell’arco di un’ora di performance. H20 fu un banco di prova di tutte le sperimentazioni che potevamo fare. Nel caso di The Dark Side of the Sun un’ulteriore sfida è stata quella di provare a creare noi un piccolo studio di animazione in 2D. L’animazione in 2D è il modello di animazione tradizionale, ma Lorenzo trovò un workflow per cui praticamente faceva tutto, coinvolgendo poi alcuni coraggiosi animatori e Maria Chiara Di Giorgio, illustratrice straordinaria, che fece tutti i fondali. Di solito è tutto molto più schematico; dopo aver ideato i personaggi e le storie si va in uno studio di animazione per sviluppare le animazioni; noi invece abbiamo voluto mettere in piedi un piccolo studio autonomo, indipendente, pieno di ragazzi che potevano seguire la creatività di Lorenzo. Mauro Uzeu, grande fumettista e animatore, si unì al progetto e ci diede una mano a costruire un budget e a mettere insieme questo gruppo. Fu un lavoro incredibilmente artigianale: tanti animatori concentrati nel nostro studio, chiusi lì dentro fino ad arrivare a dormirci, per stare dentro; i tempi è stato davvero complicato. Grazie a Lorenzo e alla sua capacità di immaginare un’animazione che per certi versi dialogava con l’animazione giapponese, coinvolgemmo addirittura la NHK, la televisione giapponese, e quando chiudemmo l’accordo ci dissero «voi conoscete gli standard dell’animazione giapponese, meglio che li rispettiate». In questo credo che Lorenzo abbia fatto miracoli. Questo è un po’ il nostro spirito, non a caso ci chiamiamo Citrullo International: mettere in piedi cose che sulla carta ancora non esistono. Lo abbiamo fatto con l’animazione e lo abbiamo fatto per il workflow di The Tree of Life. Anche per Monte di Amir Naderi abbiamo costruito dal nulla un intero villaggio in cima alle montagne, come si faceva ai tempi del cinema di Sergio Leone. Quello che cerchiamo di fare è capire cosa serve ai progetti, scoprire l’essenza dei progetti e cercare di assecondarla invece di piegarla a logiche produttive.

The Book of Vision è un’opera complessa e ambiziosa, molto colta ma al tempo stesso spontanea e “sentita”. Quali sono state le prime ispirazioni per te e per il tuo co-sceneggiatore Marco Saura?

The Book of Vision mi ha accompagnato per diversi anni. L’idea iniziale parte da un medico realmente vissuto nel Settecento, Johann Storch, di cui avevo letto in un libro di Barbara Duden, Il corpo della donna come luogo pubblico, quando ero ancora all’università. Il libro analizzava quanto la percezione del corpo della donna fosse cambiata nei secoli: nella contemporaneità siamo abituati a un discorso molto maschile sul corpo della donna, e il più delle volte il corpo della donna è un luogo pubblico nel senso che tutti si sentono autorizzati ad esprimere un giudizio su di esso, soprattutto sulle questioni relative all’aborto e alla gravidanza. Barbara Duden dimostra come in passato la percezione del corpo femminile fosse molto diversa, e come i medici del Settecento, nello specifico Johann Storch, ascoltassero con grande attenzione i racconti delle pazienti: solo le pazienti raccontavano il loro corpo, non si entrava mai a investigarlo, toccarlo, era dai racconti dei malati che si deducevano i rimedi. La bellezza di questa idea ha continuato a crescere dentro di me nel tempo, e inizialmente scrissi un progetto ambientato nel Settecento. Mi confrontai su quella prima stesura innanzitutto con Marco Saura, che poi sarebbe diventato a tutti gli effetti co-sceneggiatore del film, ma un certo punto ebbi un confronto anche con Pascal Bonitzer, uno sceneggiatore francese che amo tantissimo. Bonitzer aveva scritto un film di Jacques Rivette per me fondamentale, Histoire de Marie et Julien un film fantastico, incentrato sostanzialmente sulla storia d’amore fra un uomo e un fantasma che torna alla vita. Bonitzer mi disse che la sceneggiatura era interessante, ma che mancava l’elemento sanguigno, la passione. Da quel confronto venne l’idea del ragionare a specchio tra due epoche: un personaggio contemporaneo, nel momento in cui deve prendere delle decisioni importanti, sostanzialmente va a ritroso e mette in discussione le proprie scelte confrontandosi con quello che è accaduto nella storia di un medico del Settecento. Ho cominciato a lavorare su personaggi a specchio e sull’incrocio fra due epoche. Assieme a Marco Saura, quello a cui ho cominciato a lavorare era una narrazione libera. Una certa ispirazione ci veniva, da un lato, dai modelli di narrazione che Lost e altre serie televisive avevano iniziato a imporre in quegli anni, con flashback e flashroward che creano un tempo nuovo in cui coesistono passato, presente e futuro; dall’altro lato, avvertivamo che quello che stavamo scrivendo ricordava alcune dinamiche che avvengono nei videogiochi, dove il cambio di quadro è come un salto in una realtà a sé stante. Il nostro obiettivo principale era tenere la narrazione più libera possibile. Diversamente da Lost, i piani temporali non sono diventati tanto un lavoro su flashback e flashforward, ma sul trovare un tempo terzo che fosse una sintesi, per certi versi, tra passato e futuro. Sotto questo aspetto sono paradossalmente felice del fatto che The Book of Vision sia uscito durante la pandemia, il tempo più rivoluzionario che abbiamo mai vissuto. Alcuni dei film usciti in questi mesi dimostrano come il cinema sia vitalissimo. Prendiamo Tenet, per esempio: che piaccia o meno, la cosa interessante è che il film di Nolan ragiona su un tempo nuovo, e quel tempo nuovo rappresenta l’immanenza del cinema, è come se esistesse un tempo legato al cinema che non è più il passato, il presente o il futuro, ma è un tempo alternativo che rende immanente e concreto il tempo del sogno. Secondo me tutti i film che esplorano queste dinamiche temporali sono interessanti: mai come in questo momento il pubblico è avanti, il cinema è avanti e chi analizza il cinema sta indietro; penso veramente sia un momento in cui a volte i film sono più avanti delle parole e delle categorie che usiamo per descriverli. Il mio tentativo è stato quello di non essere guidato da niente se non dalla voglia di creare un mondo particolare, di costruire un film che avesse una sua lingua e un suo incrocio fra mondi, che non seguisse una strada già percorsa. Il nostro è stato un sentiero incerto in cui verificavo le cose, spinto dalla convinzione che avrei fatto il mio lavoro fino in fondo se il film fosse stato il più libero possibile. In questo Marco Saura è stato un compagno di avventura perfetto perché è pazzo almeno tanto quanto me, e anche lui si sente stimolato dall’inventare cose nuove.

Nella sua peculiare struttura, The Book of Vision ricostruisce quasi foucultianamente come sono cambiati i rapporti fra medico e paziente, riconoscendo nel finire del Settecento una frattura, un momento in cui la medicina ha smesso di “ascoltare” le percezioni e i sogni del paziente. Quali sono state le tue fonti e i tuoi consulenti in questo lavoro di ricerca? 

Ho lavorato innanzitutto con Mauro Capocci, un filosofo che lavora alla Sapienza e è specializzato in Storia della Medicina. Grazie a lui ho scoperto il mondo interessantissimo della Storia della Medicina. La Storia di Medicina è un campo di studi interdisciplinare per eccellenza: nasce in ambito medico ma assume subito una connotazione filosofica. La storia della medicina è di fatto a metà fra l’approccio scientifico-medico e l’approccio storiografico-filosofico. Un secondo confronto fondamentale è stato con Alessandro Blasimme, altro filosofo che si occupa di filosofia della scienza al Politecnico di Zurigo. Alessandro sostanzialmente segue da vicino progetti di ricerca all’avanguardia di genetica e altri campi affini, e ne studia tutte le implicazioni etiche e filosofiche. Dal confronto con loro due mi sono accorto che, mentre noi stiamo qui a parlare della contemporaneità, in realtà c’è un futuro di cui per lo più ci sfuggono le conseguenze. Per fare un esempio specifico: è già possibile in nuce, e sarà possibile in futuro, che una donna decida di crescere un figlio in una placenta artificiale conservata in laboratorio. Allora perché si dovrebbe scegliere la sofferenza del parto tradizionale? Così come l’uso dei robot. È un dato di fatto che nel giro di pochi anni ci sostituiranno in moltissime attività. Il confronto con Capocci e Blasimme mi ha proiettato nel futuro e per questo ho voluto inserire nel film i robot chirurgici, che la ditta AB Medica ci ha concesso in uso. Sono contento che molti filosofi abbiamo analizzato il film, in particolare Felice Cimatti ha scritto su «Fatamorgana» uno degli articoli più a fuoco. Per quel che mi riguarda, con The Book of Vision ho cercato di cogliere una nuova sintesi: non ho alcuna fascinazione passatista, ovviamente per me la soluzione non è quella di un medico che, come nel Settecento, si limiti ad ascoltare i racconti dei pazienti senza analizzarne il corpo. A me interessa la sintesi tra metodi diversi, immaginare qualcosa che non esiste, il metodo del futuro, per così dire. Ogni confronto con i consulenti è stato affascinantissimo: fare un film per me significa avere l’opportunità di continuare a studiare. È la cosa più importante, non accontentarsi mai di quello che sappiamo, cercare di conoscere. Un’altra filosofa che per me ha rappresentato un punto di riferimento nel creare The Book of Vision è stata Daniela Angelucci, che ha un approccio legato a Foucault e Deleuze. Gilles Deleuze e Félix Guattari, con Millepiani, hanno fatto un’analisi grandiosa del corpo e di quella differenza fondamentale che passa tra l’avere un corpo e l’essere un corpo, il sentirsi corpo, capire che il corpo non è una cosa che possediamo, ma che siamo noi stessi corpo. Questo è ciò che caratterizza la protagonista del film in fondo: lei è un corpo perché usa il corpo, anche sul piano sessuale, ad esempio, se decide di avere una relazione con uomo lo bacia, non si interroga sul significato sociale di una donna che si approccia un uomo e via discorrendo. Eva agisce come se lei e il suo corpo fossero la stessa cosa. Queste idee sono germinate con il confronto diretto con Capocci, Blasimme e Angelucci, e con la lettura di Deleuze, Guattari, Foucault, e anche Lacan. The Book of Vision è un film che ha le sue radici nella filosofia e nella Storia della Medicina, disciplina che unisce medicina, storia e filosofia.

Qual è stato il processo produttivo che ha portato a The Book of Vision? In quale momento del processo produttivo e creativo hai coinvolto nel progetto Terrence Malick? 

Il processo produttivo è durato molti anni e mi ha accompagnato mentre lavoravo ad altre cose. Anche Gerardo Panichi, socio fondatore, come me, della Citrullo e produttore principale del film, sapeva che accanto a ogni più piccolo progetto che realizzavamo c’era questo per il futuro. Se vogliamo, The Book of Vision era già in nuce ai tempi di Rosy-Fingered Dawn. Con Terry mi sono confrontato su ogni film che ho fatto dopo quel documentario, gli ho sempre mandato i miei progetti, ci siamo sempre scambiati idee e ha sempre cercato di supportarmi. Se devo fare un elenco, i miei tre riferimenti fondamentali sono Malick, Otar Iosseliani e Bernardo Bertolucci. Con questi tre registi fortunatamente sono riuscito a instaurare una relazione che mi permetteva un confronto, e forse è stato il regalo più grande della mia vita. Anche Bertolucci mi ha dato consigli su The Dark Side of the Sun, e mi ha aiutato a trovare un doppiatore per la parte inglese. Mentre cercavamo di costruire il film Terrence ha seguito il processo di creazione, nel quale era coinvolto produttivamente. Ho proposto a Jorg Widmer di curare la fotografia perché avevamo lavorato insieme a The Tree of Life; Hanan Townshend che, assieme a Pascucci ha scritto le musiche di The Book of Vision, è stato il compositore di molti film di Malick; David Crank, lo scenografo, ha lavorato per Malick e Paul Thomas Anderson. In breve, lavorando con Malick costruivo già un dialogo con le persone che avrei voluto coinvolgere nel mio film, anche se è stato un processo lungo. A Terrence è sembrato naturale entrare come produttore esecutivo, ed è stata ovviamente una cosa molto bella per me, un percorso che arrivava a compimento: la mia relazione con lui era nata da giovane ammiratore del suo cinema, poi piano piano è diventata una collaborazione. Secondo me la cosa interessantissima di Malick, parallela alla sua carriera di regista, è stata la carriera di produttore. Tanti registi che hanno lavorato con lui come assistenti sono stati sostenuti da Malick: A.J. Edwards, suo assistente per The Tree of Life, ha fatto poi The Better Angels, prodotto da Malick, così come Andrew Dominik, assistente in The Thin Red Line, ha fatto subito dopo film molto coraggiosi; anche Jeff Nichols agli inizi era vicino a Malick e alcune delle immagini degli stormi che avevo girato per The Tree of Life sono finite nel suo Take Shelter perché la produttrice era la stessa. Secondo me tante figure centrali del cinema americano, fra cui Terry, hanno avuto e hanno tuttora la capacità di accorgersi del fatto che il cinema ha bisogno di essere sostenuto, come ha fatto anche Scorsese con A Ciambra di Jonas Carpignano. Per questi grandi cineasti è un approccio naturale perché anche loro, quando erano agli esordi, hanno ricevuto il sostegno dei grandi registi del loro tempo. Il coinvolgimento di Terrence come produttore esecutivo è stato naturale e spontaneo; quello che ha fatto è stato aiutare a mettere insieme questa famiglia di straordinari professionisti in cui Jorg era un punto di riferimento centrale, al pari dello scenografo David Crank. Per me è stato incredibile assistere al confronto fra queste professionalità internazionali e gli italiani che ho coinvolto, come Lorenzo Ceccotti o il costumista Mariano Tufano: si è creata una straordinaria sinergia. Un’altra cosa veramente stimolante è stata la collaborazione fra Federico Pascucci, parte della band Errichetta Underground, con cui suono da tanti anni, che ha fatto le musiche assieme ad Hanan Townshend, il compositore che ha scritto le musiche per i film di Malick da The Tree of Life in poi. La collaborazione fra Federico e Hanan è stata fantastica, si sono stimolati a vicenda: Hanan si occupava della parte elettronica mentre Federico ha composto ed eseguito le parti registrate con Errichetta Underground. Sono molto contento che collaborazione sia cresciuta al punto che per The Last Planet, il nuovo film di Malick, Hanan ha di nuovo chiesto a Federico di registrare dei brani. Penso che sia questa la grandezza del cinema: creare connessioni. Il regista non è la persona che si impone con la forza e che piega le cose al suo volere, al contrario deve essere un medium che cerca di creare un ecosistema all’interno del quale le persone esprimano il talento che hanno.

A livello tecnico, quali input visivi hai dato al direttore della fotografia Jorg Widmer? Come ti sei rapportato invece al reparto degli effetti speciali, soprattutto per quanto riguarda le scene nella foresta?

Sono abbastanza metodico come regista, e faccio uno storyboard scena per scena molto dettagliato. Dopo The Dark Side of the Sun Maria Chiara Di Giorgio è tornata a lavorare a The Book of Vision come storyboard artist. Avevo fatto dei miei primi schizzi che lei ha tradotto visivamente. Grazie a lei sono partito con uno storyboard dettagliatissimo di tutte le scene; poi le sequenze che implicavano la CGI, vale a dire gli effetti speciali in computer grafica, le previsualizzavamo con Lorenzo, grazie a delle tavole molto dettagliate in cui disegnava i key frame con un’illustrazione molto evocativa. Ho tutta una serie di punti di riferimento, ma piuttosto che indicare un altro film come reference preferisco disegnare uno storyboard che descriva chiaramente il movimento di camera a cui penso e la disposizione degli elementi nello spazio. Preferisco partire da qui piuttosto che imitare qualcosa. Con Jorg ovviamente si è ragionato su diverse cose, un importante riferimento per come affrontare l’universo medico è stato The Knick, la serie di Steven Soderbergh. Nella serie di Soderbergh c’è stato un uso atipico e innovativo delle luci calde a incandescenza negli ambienti dell’ospedale, dove si venivano a sovrapporre al bianco del teatro anatomico, dei camici e degli stivaletti. Quella serie ci ha suggerito di osare un po’ dal punto di vista cromatico e, con Jorg e il costumista Mariano Tufano, abbiamo fatto scelte di colori apparentemente poco gestibili. La palette di colori del film aveva il rosso, il giallo, l’oro, l’oro accostato al rosa acceso, una dimensione cromatica molto spinta che potrebbe scioccare alcuni registi; invece per me è diventata subito un elemento straordinario di sperimentazione e ho dato a Mariano la possibilità di osare molto. È stato uno stimolo visivo forte anche per Jorg, che a sua volta ha avuto davanti alla macchina da presa elementi molto interessanti e atipici, perché stavamo di fatto forzando gli elementi cromatici. Quello che metti davanti alla macchina da presa influenza anche la fotografia e non puoi non confrontarti con i reparti della scenografia e dei costumi. Quindi ho fatto in modo di confrontarmi in maniera organica con Jorg, Mariano e David. Jorg e David avevano già lavorato insieme nei film di Malick, si stimavano molto e lavoravano bene insieme. David Crank ha dato un contributo straordinario: tenendo in mente anche certe inquadrature di Kubrick, io volevo avere molta profondità di campo e per ottenerla servivano spazi ampi. Un altro lavoro molto importante è stato fatto per trovare il giusto castello settecentesco, e una volta individuato il castello creare al suo interno delle scenografie che mi permettessero di disegnare movimenti di camera articolati in cui potevo attraversare lo spazio. Un’idea molto bella di David è stata quella di mettere il baldacchino del letto di Elizabeth, che è la protagonista della parte settecentesca, al centro della stanza; così facendo permetteva a me e a Jorg di usare il crane passando all’interno del baldacchino, attraversando lo spazio scenografico, valorizzando la profondità di campo. A livello di effetti speciali, io e Lorenzo Ceccotti, che qui è stato il supervisore degli effetti visivi, volevamo tornare all’artigianalità che contraddistingueva e impreziosiva film degli anni ’80 come Labyrinth, Storia infinita, I Goonies, Ritorno al futuro: come in questi classici della nostra infanzia anche nel nostro lavoro l’effetto speciale è stato creato innanzitutto davanti alla macchina da presa, dal vivo, artigianalmente, e poi integrato con la computer grafica in post-produzione. Abbiamo così inventato costumi che imitassero la corteccia, in modo che i nostri attori/danzatori fossero integrati con la natura, poi abbiamo costruito interventi di CGI dove si verificava un’ integrazione tra elementi 3D che “amplificavano” la scenografia: per fare un esempio: scenografavamo le radici dall’albero in movimento a cui poi aggiungevamo altre radici e altri movimenti in 3D. Non abbiamo voluto avere un set con green screen: per quanto complicata possa essere una scena, se fai tutto con la computer grafica si vede e il film ne risente. Questa necessità di fare gli effetti speciali già dal vero era un elemento importante da tenere presente anche per la scenografia. Quando il personaggio di Maria deposita il feto abortito sotto l’albero c’è un movimento di crane girato con una lente 8mm che Jorg aveva sperimentato molto nei film di Malick; gli attori che impersonavano gli uomini albero erano sdraiati a terra con costumi che sembravano radici. Il movimento del crane e la lente utilizzata bastavano creare un effetto naturale di distorsione sul quale poi abbiamo integrato la CGI. È il rapporto fra elementi reali e computer grafica che fa il risultato finale.

I costumi di Mariano Tufano per The Book of Vision

I costumi di Mariano Tufano per The Book of Vision

La tua concezione di cinema sembra essere legata a una forte attenzione tanto per le immagini quanto per il suono. Per quanto concerne il suono, quali sono i tuoi compositori di riferimento e come pensi che il sonoro, al cinema, possa diventare concetto e narrazione?

Il sonoro è un elemento fondamentale al cinema. Uno dei professori con cui sono cresciuto è Michel Chion, che nel suo noto saggio La voce al cinema ha saputo teorizzare il sonoro cinematografico come nessun altro. Quando una volta gli chiesi quale fosse secondo lui la rivoluzione che aveva portato il digitale al cinema per quanto riguardava l’aspetto sonoro, lui mi rispose – una cosa molto bella per me – “il silenzio”. L’analogico, con il rumore di fondo costante della pellicola che scorreva, paradossalmente rendeva impossibile il silenzio, la sottrazione del suono. Quello che hanno portato i sistemi digitali è proprio la possibilità di ascoltare il silenzio, e credo che alcuni film abbiano fatto un lavoro fantastico su questo aspetto, come Gravity: di nuovo, il film può piacere o meno, ma la dimensione dello stare da solo nello spazio non sarebbe stata percepita nello stesso modo dagli spettatori. Credo che il suono sia un elemento importante tanto quanto l’immagine, anzi, una cosa che dice Michel Chion, e che credo sia giustissima, è che laddove la vista, a causa dello sbattimento delle palpebre, ha un tempo minimo in cui non si percepiscono le immagini, l’orecchio sente sempre. Il suono è un veicolo di narrazione ancora più forte dell’immagine: l’orecchio sente sempre, l’udito non si interrompe mai. Per me il suono è fondamentale, tanto che quando faccio un film inizio a pensare al commento sonoro parallelamente alla scrittura e alle riprese, iniziamo a concepire la musica e ad accumulare un bagaglio di effetti sonori che viaggia parallelamente alla realizzazione del film. Così come cerchiamo di creare un universo visivo ad hoc per ogni film, allo stesso modo cerchiamo di creare un mondo sonoro a sé stante per ciascuno dei nostri progetti. Con Giuseppe D’Amato, mio montatore del suono, andiamo a registrare elementi sonori, senza cercare i foley nelle banche dati: per i suoni materici degli uomini-albero, abbiamo registrato dei suoni tirando delle corde e inventandoci soluzioni artigianali simili. Sicuramente ho una formazione molto legata alla musica classica ma amo la musica in generale, anche il jazz ad esempio. Più che una corrente musicale piuttosto che un’altra, quello che mi piace è sempre l’invenzione di un linguaggio. Nel caso di The Book of Vision sono andato istintivamente, a livello di riferimenti e di scelta dei brani, verso due compositori classici che avevano una grandissima consapevolezza della musica che li aveva preceduti, la musica di Bach e di Mozart, ma che sono stati anche gli inventori dell’armonia contemporanea, quella che troviamo ancora oggi anche nel pop: Brahms e Liszt, per ognuno dei quali c’è un brano all’interno della colonna sonora. Un brano di Brahms si sente lungo i titoli di coda, mentre diverse scene sono accompagnate dall’Inno del bambino al suo risveglio di Liszt. Brahms e Liszt incarnano per me questo, tenere insieme il passato e proiettarsi verso il futuro, sono stati due compositori che hanno fatto questo e con gli altri due compositori contemporanei che ho coinvolto, Federico Pascucci e Hanan Townshend, ho cercato di fare stessa cosa: avere una componente elettronica, portata da Hanan, e una componente melodica, con i suoni concreti dei sassofoni portati da Federico e dalla Erichetta Underground. Per ogni aspetto del film ho sempre cercato di avere un linguaggio che si appoggiasse contemporaneamente su due dimensioni.

Il brano musicale The Book Of Vision by Hanan Townshend

In The Book of Vision diversi attori, a cominciare dai protagonisti Charles Dance e Lotte Verbeek, rivestono un doppio ruolo, uno nella linea temporale settecentesca e uno nella linea temporale contemporanea. In una tua intervista al «Manifesto» hai detto che la cultura ebraica faccia luce sul fatto che “muore l’essere individuato, muore l’individuo”. Puoi approfondire ulteriormente come pensi che la cultura ebraica rielabori e problematizzi il concetto di identità e il “principium individuationis”?

Quello che penso è che nel momento in cui noi diamo un nome a qualcosa, anche un nome proprio, noi lo stiamo condannando alla mortalità, perché diamo una dimensione di determinatezza, rendiamo individuo quello che è un divenire in trasformazione. Una cosa interessante è che gli animali non hanno questa dimensione, al massimo siamo noi a imporre loro un nome e renderli individuati, e hanno un’immanenza e un’eternità scritta semplicemente nell’agire, nel fare, nell’essere un corpo piuttosto che nell’avere un corpo, per tornare al discorso di prima prima. Sì, nella cultura e nella religione ebraica è fondamentale questo ridimensionamento dell’io, e questo secondo me è un elemento molto affascinante: si rinuncia a un principio di identità limitante e semplicistico per riconoscersi parte di qualcosa di più grande, per certi versi di qualcosa che è immortale. Nell’intervista che citi dicevo anche che questo discorso si lega facilmente al cinema: l’esperienza vertiginosa dello spettatore è quella di scordarsi di essere un soggetto individuato, di essere un individuo, e diventare partecipe di qualcos’altro; provocatoriamente anche in quell’occasione ho detto che sarebbe bello se al di fuori delle sale accanto, agli appendiabiti, ci fossero degli “appendi-io”, per lasciare l’io fuori dalla sala e godere l’esperienza pura del cinema. Per farlo serve però rivoluzionare l’approccio nei confronti dell’arte in generale, e a tal riguardo cito sempre una riflessione di Deleuze e Guattari: «l’artista non ha mai nessun io da difendere, ogni volta che si immagina che l’artista sia unico artefice di un’opera d’arte depotenziamo sia l’artista che l’opera d’arte». Non avere un io da difendere è una chiave e un esercizio. Quello che cerco di fare è non leggere quasi mai le critiche e le recensioni, non perché sono snob, ma perché se lo facessi con l’atteggiamento di verificare se quello che scrivono corrisponde effettivamente alle mie intenzioni e a quello che ho fatto non farei quello che deve fare un artista, mettere al mondo una cosa e poi lasciarla andare, anche lasciarla naufragare, per certi versi, abbandonandola a un flusso. Quello che mi dispiace è che a volte i critici si scordano di questo; come dice Edoardo Bruno, se un film non ti parla è meglio che non ne parli, semplicemente perché credo sia importante lasciar germinare le cose, lasciare che lascino dei frutti. Quello che invade a volte la critica cinematografica, come tutto, per tornare sulla questione dell’abbandonare l’individuo, è una sorta di ansia normativa, l’impulso a inserire ogni cosa dentro un apparato di categorie e di norme. Ho un’allergia alle espressioni “funziona”, “è fragile” , “è incerto”, perché secondo me dove l’arte è fragile, incerta e indeterminata lì è più forte. Per me la fragilità e a volte l’“ingenuità” sono i luoghi dove l’arte trova il mistero, un’apparente incompiutezza che rende l’arte qualcosa di sorprendente. Una cosa che mi manca molto è l’“ingenuità” che c’era, ad esempio, nell’approccio dei fantasy degli anni ’80 o dei primi Star Wars. Immagina la prima volta che si è ipotizzato che un esserino verde come Yoda potesse essere uno dei protagonisti di un film di Star Wars: serve ingenuità e incoscienza per fare una cosa del genere. Di questo abbiamo discusso molto con Irvin Kershner, di cui abbiamo già parlato prima, il regista de L’impero colpisce ancora, l’episodio di Star Wars in cui compariva per la prima volta Yoda. Irvin vide a un festival il mio documentario Chatzer - Volti e storie di ebrei a Venezia, che a livello internazionale era distribuito con il titolo di Chatzer: Inside Jewish Venice, e mi scrisse quanto gli fosse piaciuto e anche lui divenne un mio mentore. La cosa interessante che mi raccontava era quanto lui e Lucas avevano dovuto combattere con i produttori per convincerli che Yoda doveva essere uno dei protagonisti de L’impero colpisce ancora, perché i produttori temevano che a causa sua il film sarebbe stato un disastro. Se quell’ingenuità e incoscienza ci fosse, anche a costo di ricevere tutte le qualifiche snervanti di “incerto”, “fragile” o “ingenuo”, il cinema non farebbe nessun salto in avanti. La sensazione è che rinunciare all’io, avere una non-individuazione che significa appartenere all’eternità, e riportare al centro della vita l’arte come mistero sono per me le chiavi del futuro ma anche del presente. Già assistiamo a questo: di nuovo, come diceva Wittgenstein, non è l’arte, il cinema ad essere sbagliata o “incerta”; siamo noi che usiamo i paragoni sbagliati, le parole sbagliate, l’arte è vitale e mai come adesso proiettata verso il futuro. È che parliamo male di arte e di cinema, usiamo parole sbagliate per descrivere un qualcosa che a volte è inafferrabile.

Carlo S. Hintermann

Carlo S. Hintermann

Il tuo ultimo film si fonda sull’assunto che la vita delle persone che amiamo non si esaurisce del tutto con la morte, e si nutre di echi in un certo senso animista. Mi permetto di farti una domanda più concettuale delle precedenti: pensi che il cinema possa rappresentare meglio la trascendenza o l’immanenza? Verso quale delle due ti senti più portato?

Io sono portato verso un’immanenza trascendente, nel senso che credo che la chance della filosofia attuale sia quella di considerare l’immanenza come un tempo assoluto; il paradosso è quello di non avere più bisogno della trascendenza perché ci riconosciamo eterni. Questo è il punto. Per me è bellissimo il verso che dà il titolo a Like a Rolling Stone, la canzone di Bob Dylan: «How does it feel, how does it feel?/To be without a home/Like a complete unknown, like a rolling stone». Come ci si sente ad essere una pietra che rotola, a non avere apparentemente niente e far parte di un universo infinito? La mia risposta è che ci si sente molto bene, e dovremmo tutti assomigliare di più a una pietra, un albero, e riconoscere noi stessi come qualcosa che è in continua trasformazione, in un’immanenza che è assoluta ed eterna, che non ha più bisogno della trascendenza perché ha già in sé il germe dell’infinito. Al di là delle interpretazioni dei film, che ognuno interpreta come vuole, se mi si chiede se credo nell’aldilà io rispondo che credo nelle tracce che vengono lasciate. La questione non è tanto se credo religiosamente nella reincarnazione, come pure mi è stato chiesto dopo The Book of Vision, ma mi sembra evidente che tutto lasci una traccia, e che questo lasciare una traccia germini in continuazione, sia questa traccia un oggetto, un libro, o le parole di qualcuno.

Dopo la presentazione di The Book of Vision a Venezia, c’è un nuovo progetto di lungometraggio all’orizzonte?

Sì, sto lavorando a un nuovo progetto. Quello su cui adesso mi sembra interessante interrogarsi è il rapporto fra uomo e animale. Ho iniziato a scrivere una storia che si interroga su questo e su come è cambiata la sessualità, un’indagine sulla rivoluzione del genere che sta cambiando la nostra percezione della realtà e la nostra relazione con la sessualità. Mi affascina molto come generazioni giovanissime concepiscono e vivono il corpo e la sessualità, mi sembra ci sia una trasformazione verso una nuova dimensione scevra del retaggio religioso e culturale che la mia generazione ha vissuto. Sto ragionando su questo, sul rapporto fra uomo e animale, da un lato, e sul genere e sulla sessualità dall’altro. Secondo me la cosa molto interessante è che tutto quello che è accaduto negli ultimi tempi ci mostra quanto l’Homo sapiens non sia al centro del mondo, e questo nostro tempo ci offre una chance straordinaria di riconoscerlo. Il nuovo progetto tiene insieme queste spinte e la voglia di mescolare i linguaggi, in questo caso live action e stop motion.

Si ringrazia l’attrice Livia Antonelli per averci messo in contatto con lo staff di Carlo.

 

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