Nascita di un post-realista. Conversazione con Ludovico Cantisani

Ludovico Cantisani, nato a Roma nel 2001 da una famiglia di origine meridionale, ha scritto, diretto e prodotto il cortometraggio Penelopes, liberamente ispirato all’Ulisse di Joyce e patrocinato dall’Italian James Joyce Foundation. Partito sulla piattaforma di crowdfunding Ulule come corto a basso budget, Penelopes vanta la partecipazione del direttore della fotografia di Luciano Tovoli. Il film ha avuto la sua première a Terre di Cinema, a Catania, campus cinematografico diretto da Vincenzo Condorelli, ricco di eventi, anteprime e masterclass. 

SEGNALIAMO CHE E’ IN CORSO IL CROWDFUNDING PER IL PROSSIMO PROGETTO DI CANTISANI: “BILOGIA DELL’URLO“: https://www.produzionidalbasso.com/project/bilogia-dell-urlo-tovoli-la-torre-cantisani/

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Hai da poco presentato, a 17 anni, il tuo cortometraggio Penelopes, girato con un Maestro quale Luciano Tovoli alla direzione della fotografia. Come è nato il film?

Penelopes l’ho costruito a partire da quella che fino all’ultima stesura della sceneggiatura era la scena centrale, il dialogo fra il protagonista Leonardo e l’ex-moglie Virginia. Mi sembrava il giusto dialogo per rappresentare la crisi del modello classico del maschile. Esperienze personali e alcune suggestioni letterarie si erano accumulate in quella che era la stesura di una singola scena, lo scorso febbraio, ma all’inizio non c’era l’influenza di Joyce. Poi l’ho intitolato istintivamente Penelopes, e allora mi è venuto in mente di ricorrere a Joyce. Non l’avevo ancora letto, ma mi attirava sin da quando avevo quattordici anni. Sono andato in biblioteca e l’ho letto nelle settimane successive. Arrivare a una rappresentazione cinematografica del pensiero umano è uno dei miei obiettivi registici, intendo a lungo termine, e una suggestione dal romanzo di Joyce mi sembrava il miglior punto di partenza. Inizialmente avevo adottato lo stesso sistema usato da John Cassavates per il suo Mariti, che, secondo alcuni critici, si ispirava all’Ulisse riprendendone i quattro episodi principali. Così avevo concepito per il protagonista una serie di “incontri falliti”, che precedessero o seguissero l’ultimo appuntamento con l’ex-moglie; poco prima delle riprese si è aggiunta la sequenza ricorrente del sogno, ispirata alla forte impressione che un giorno mi avevano trasmesso i capelli di quella ragazza, poi appunto entrata nel film. Abbiamo girato il corto pensando le varie vicende ambientate in una sola giornata: Leonardo sogna l’ex-moglie Virginia da giovane, si alza, va a lavoro, e riceve da lei, che si trova a passare in “città”, la proposta di incontrarsi quello stesso giorno; corre sul posto dell’appuntamento e, una volta con lei, tutta la sua incapacità di comunicare e la sua mania di possesso si palesano, costringendo la donna ad andarsene; non vanno meglio il tentativo di dialogo col padre o l’approccio con una prostituta. Ma è stato solo durante la lunga fase di montaggio che ho capito che se volevo effettivamente dare una suggestione cinematografica dell’Ulisse avrei dovuto tradurre in immagini il flusso di coscienza joyciano: altrimenti ne sarebbe venuto fuori un ibrido incapace di trasporre la sintassi di Joyce nella sintassi del cinema.

Perché pensavi a Luciano Tovoli come direttore della fotografia? E come l’hai coinvolto nel progetto? 

È stato grazie a Luciano Tovoli, e al suo libro-intervista Suspiria e dintorni, che ho compreso l’importanza e le implicazioni della fotografia cinematografica. Avevo sentito parlare Tovoli nell’occasione di due presentazioni del libro, una all’Apollo 11 di Roma e l’altra durante il festival Il Cinema Ritrovato della Cineteca di Bologna, ed è subito diventato uno dei miei miti, un sogno proibito da accarezzare. Mi sembrava però troppo in alto, e francamente pensavo anche che si fosse ritirato, perché i suoi ultimi lavori erano stati film francesi o svizzeri e la sua pagina di Wikipedia non li riportava. Quando il crowdfunding volgeva al termine, dopo essere fuggito da un incontro spiacevole con una troupe che ha avuto un comportamento tutt’altro che limpido nei miei confronti, mi sono buttato e, attraverso Artdigiland, l’ho contattato con una mail, alla quale Luciano ha avuto una reazione positiva. La sua collaborazione mi ha permesso, a fronte di un budget veramente esiguo, di realizzare un lavoro professionale. Oltre a Luciano devo ringraziare l’Augustus Color di Alessandro Pelliccia, la più importante ditta di post-produzione di Roma, quella che ha lavorato per i film di Luca Guadagnino per intenderci. A posteriori ho capito che, in quella email, a Luciano era piaciuta la drammaturgia della sceneggiatura e alcuni discorsi di teoria cinematografica cui accennavo; una volta sul set, mi ha detto di apprezzare la mia modalità di direzione degli interpreti.

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Le immagini che rappresentano il sogno sono affascinanti. Avete parlato di come realizzarle, della qualità di quella luce? Di come valorizzare la pelle chiara della ragazza, di quella stella marina rossa sul corpo di lei?

Abbiamo subito messo in chiaro in realtà che non ci dovesse essere una particolare differenza tra sogno e veglia, non a livello di "filtri" perlomeno. Il sogno tuttavia rappresenta una sorta di rifugio interiore per il protagonista, ed è l'unica scena che abbiamo girato all'aperto e di giorno, sulla spiaggia di Maccarese-Fregene. Durante la color correction Luciano ha dato particolari indicazioni per arrivare a un risultato finale particolarmente limpido e "onirico" senza essere didascalico.

In Penelopes è notevole la qualità delle performance attoriali. Come ti approcci alla direzione degli attori? E quali sono i tuoi punti di riferimento durante il lavoro?

Rispetto alla direzione degli attori mi pongo in una maniera molto spontanea, molto poco meditata, ma è senz’altro una delle parti che curo di più. Il metodo che ho sviluppato, corto dopo corto, prevede essenzialmente due cose. La prima è creare un forte legame con gli attori, conoscerli bene e provare molto a lungo il testo con loro; non posso mancare qui di ricordare l’ottimo Alberto Bonvento, il protagonista di Penelopes, e la cura con cui già settimane prima delle riprese studiava e ristudiava quelle dieci pagine di sceneggiatura. La seconda deriva dalla mia insofferenza verso la tradizionale recitazione cinematografica; nei film che vedo al cinema molto raramente resto pienamente convinto dall’interpretazione degli attori, anche dei più apprezzati; cerco di dirigere gli attori verso una recitazione più espressionista, “teatrale” e drammatica rispetto a quello che abitualmente si vede al cinema.

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Credo che sia importante questa tua ricerca di una recitazione “stilizzata”. Fa capire che sei interessato alla rappresentazione di una dimensione “altra”. Anche la musica sembra importante in Penelopes. Per buona parte della sua durata scorre un tappeto musicale che aiuta a creare una dimensione ipnotica…

Un tappeto musicale scorre per buona parte della mia vita. Ho un bisogno costante di musica, e in particolare di melodie che in un modo o nell’altro mi trasmettano un senso di nostalgia. È inevitabile che questo ritorni anche nei miei lavori al cinema. Per pura coincidenza ho conosciuto un bravissimo compositore ancora più giovane di me, Andrea D’Affronto. Rispetto a Penelopes e ai suoi flussi di ricordi, nei prossimi lavori la musica sarà sempre continua ma presenterà un approccio “filologico”: la musica sacra troverà spazi per inserirsi organicamente fra un cambio di luci e un Pater noster.

Quali sono questi prossimi lavori?

Il mio prossimo progetto è Bilogia dell’urlo, un distico di cortometraggi: La mia ultima preghiera e Il canto del tormento. La sceneggiatura di quest’ultimo è scritta a quattro mani con la bravissima attrice protagonista, Maria La Torre, a partire da un suo testo. Tematicamente sono molto diversi, quasi opposti, ma entrambi nascono da un desiderio di ricerca a partire da alcune riflessioni di carattere teorico sul mezzo cinematografico. Entrambi esplorano lo spazio.
Il medium cinematografico ci permette infiniti modi per relazionarci con l’ambiente in cui è ambientata una scena, o l’intero film. Generalmente lo spazio cinematografico è un contorno realistico in cui far muovere i personaggi; nella Bilogia dell’urlo sto invece cercando di sviluppare un’ipotesi diversa: l’ambiente come specchio della mente. La mia ultima preghiera vuole parlare del silenzio di Dio e del mistero della fede attraverso la fotografia cinematografica: lo spazio sarà caratterizzato da un’illuminazione irrealistica, da un uso “emotivo” della luce che accompagnerà le riflessioni sempre più dubitative del seminarista Tommaso nella notte che precede la sua ordinazione. Anche questa volta la fotografia sarà di Luciano Tovoli. Il canto del tormento invece è il monologo di una ragazza che si prostituisce per scelta, ambientato nella camera dove riceve i clienti. Sarà girato in una particolare scenografia, probabilmente adatteremo all’uso un palco teatrale, i muri della stanza saranno sostituiti da teli neri, e selezioneremo quali elementi del mobilio mostrare e quali no. Si vedranno un letto, uno specchio crepato, che ha particolare importanza nella dinamica del racconto, e alcune tavole anatomiche alle pareti, ma la maggior parte della stanza sarà spoglia. Lo spazio diventa così qualcosa di a-realistico; vorrei trasmettere allo spettatore una sensazione di straniamento, vorrei che si concentrasse sulla psiche della protagonista. Qualcosa di non lontano da quanto si vede nella coppia di film Dogville-Manderlay di Lars von Trier, ma si tratta comunque di un’altra cosa, che ho immaginato durante uno scherzoso brain stoarming con un amico, parlando del non-luogo di Bauman.  

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Sembri attento a far dialogare il cinema con altre forme d’arte. E così?

Sì e no. Penelopes è un libero adattamento. Quello a cui presto attenzione fino a sfiorare l’ossessione è la coerenza con il medium cinematografico. Tradurre il flusso di coscienza di Joyce in immagini e non in parole, nel caso di Penelopes. Cambiare le regole tradizionali dello spazio cinematografico senza tornare nel teatro, per Il canto. Credo fortemente al concetto di “freschezza di visione” espresso da Ernst Gombrich, alla necessità che ogni generazione e ogni nuova forma d’arte debbano conoscere i propri predecessori, cercando al tempo stesso un’originalità espressiva. Al di là di queste convinzioni, credo che il cinema, come ogni altra forma d’arte, sia anzitutto Emozione, nel caso del cinema Emozione visiva. La sceneggiatura di quello che dovrebbe essere il mio primo lungometraggio contiene molti riferimenti all’antropologia del novecento, in particolare a De Martino, ma non vuole per questo essere una dissertazione sterile, citazionista, vanitosa; al contrario deriva e cerca di ritrasmettere la forte – quanto semplice – emozione che provo nell’ammirare i paesaggi della mia terra natale, la Basilicata. Detesto quei registi che riempiono i loro film di citazioni colte per poi non dire nulla o, quel che è peggio, non trasmettere nulla. Il mio apprezzamento verso un film è eminentemente emotivo, e mette del tutto in secondo piano l’eventuale sottotesto culturale. Nutro particolare ammirazione per l’Universo Cinematografico Marvel di Kevin Feige, per come, a scapito di qualche ingenuità narrativa, ha saputo far emozionare centinaia di milioni di persone in tutto il mondo.

Lo stimolo per la ricerca sullo spazio cinematografico ti viene da riferimenti particolari?

A dirla tutta l’unico riferimento che ho in mente è lo stile dei vecchi film porno in pellicola anni ’70, e riguarda quindi un altro aspetto, quello della qualità dell’immagine. Avevo pensato di girare in Super8, ma si farà in digitale e in fase di color cercherò di dare al film un tocco graffiato e sporco che possa rimandare un po’ a quel genere di cose. Non sono affatto un esperto di storia della pornografia occidentale, è giusto una suggestione di fondo. C’è poi senz’altro l’eco dei miei studi sul cinema du corps francese, il cinema di Ozon, Kechiche, Noé, Bonello, che senz’altro sono fonti di “ispirazione dialettica”. Voglio dire che non c’è stata un’influenza diretta ma avendo i loro stessi interessi tematici è stato molto importante per me destrutturare i loro film e capire cosa mi aveva convinto e cosa mi aveva deluso. Essenzialmente si può fare una bipartizione: Noé e Ozon sono dei provocatori, il primo di altissima qualità, il secondo di qualità discontinua; Kechiche guarda il mondo con naturalezza, indugiando sui corpi con uno sguardo spontaneo, non per studiata provocazione, e per questo motivo, per inciso, mi pare sia il più contestato. La provocazione esplicita personalmente mi sembra sempre un atteggiamento piuttosto infantile; ma d'altro canto, non riesco ad assumere la stessa serenità di sguardo di Kechiche, perché semplicemente non ne ho. Insomma, se vogliamo parlare di formazione posso dire forse che per assumere un'identità registica personale mi sono definito in relazione a questi tre registi tematicamente simili e linguisticamente e stilisticamente diversissimi. Senza abbracciare ciecamente la lezione di nessuno dei tre, da ognuno di loro ho imparato, direttamente, attraverso l'analisi, o indirettamente, attraverso la critica, qualcosa di saliente.
Per Il canto del tormento, ma anche per Preghiera, ho in mente qualcosa di particolarmente folle e carnevalesco a livello di immagini e montaggio. Non è facile descrivere a parole le immagini che ci saranno. Può venirmi in aiuto la definizione di "anarco-dadaista" con la quale era ed è tuttora definito l'attore e drammaturgo teatrale Daniele Timpano, della Compagnia Frosini-Timpano... Ma, applicata al cinema, e al montaggio di immagini in sequenza, questa definizione assume un carattere diverso. L'uso simbolico degli oggetti di scena potrebbe ricordare qualcosa di Pippo Delbono, ma in Pippo Delbono c'è un anelito alla serenità, qui c'è solo, come dice il titolo, tormento.

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Perché hai deciso di creare un dittico? C’entra il discorso sul maschile e sul femminile?

Il canto del tormento deriva semplicemente dalla forte emozione suscitatami dal testo di Maria; La mia ultima preghiera affonda in mie esperienze personali. Non è autobiografico, sia chiaro: trovo l’autofiction un sintomo della più totale mancanza di fantasia. Il protagonista Tommaso, sia da credente convinto che da credente dubbioso, offre originali spunti nell’interpretazione del divino. Credo di aver capito meglio Dio, la religione, la fede, dopo aver abbandonato ogni percorso costituito. Buona parte di quello che intendo fare in ambito cinematografico adesso ha come argomento centrale la sessualità umana, il maschile, il femminile, i rapporti di genere, e a questi temi si può facilmente ricondurre in realtà Il canto del tormento; invece La mia ultima preghiera trova il suo posto nel più ampio tema del disincanto, che è letteralmente alla base di ogni cosa che scrivo.

Sei precoce in tutto…

Ho avuto un passato estremamente particolare. Degli ultimi cinque anni una buona parte l’ho dedicata a una fede “matta e disperatissima”; ma il vero disincanto non l’ho avvertito perdendo la fede, che è stato per me un processo molto graduale, bensì quando, tornando “nel mondo”, per ragioni che ancora non riesco del tutto a spiegarmi, ho dovuto affrontare la fine – o quantomeno la messa in discussione – di tutti i rapporti affettivi che avevo. È per questo motivo che sono particolarmente grato al mondo del cinema, non solo per avermi accolto con fiducia nonostante la mia età, ma anche per avermi fatto entrare in nuove relazioni. Per me il set ideale non è soltanto quello con Luciano Tovoli; affiancano Luciano l’aiuto regista Costanza Fusco, la mia fonica di fiducia Azzurra Stirpe, i miei attori: Maria La Torre, che mi sembra veramente molto promettente; Alberto Bonvento e, accanto a lui in Penelopes,Giordano Petri e l’attrice americana Nicole Coffineau; poi Federica Flavoni, coinvolta in un altro progetto.