read in English
Alla base di Corpoluce c’è un dispositivo concettuale e tecnico che consiste in una sottile parete di luce che attraversa lo spazio, vuoto e buio, da lato a lato. Quindi la “parete” non è visibile finché non incontra il corpo che la riflette. Questo crea la condizione di base per un rapporto “uno a uno” tra corpo e luce, come nella relazione tra due esseri.
Il dispositivo corrisponde ad una più generale concezione della luce scenica come esistenza indipendente, con vita e caratteri propri, che entra nelle relazioni con forza e autonomia, come la luce nella realtà (ma non si parla qui, naturalmente, in alcun modo, di imitazione della realtà). Avendo uno status preciso e non subordinato, la luce può rapportarsi con l’altro essere in maniera complessa, così come è proprio dell’incontro tra due identità.
In questo lavoro, a confrontarsi con il dispositivo, a “disegnare” e dare movimento alla luce con la propria azione, è Alessandra Cristiani, danzatrice e performer con una sua precisa linea di ricerca e con la quale c’è una lunga consuetudine di collaborazioni.
Ho messo a punto la tecnica alla base di Corpoluce in occasione di un laboratorio che ho tenuto molti anni fa. Lo avevo diviso in due sezioni rispettivamente intitolate “Meno luce c’è, più si vede” e “Meno luce hai, più puoi creare con la luce”. Due paradossi, evidentemente; che mi servivano a individuare alcune questioni, per quanto riguarda la luce, che mi stavano a cuore.
Il primo paradosso portava l’attenzione sulla profondità del buio, sui suoi tanti gradi, sulla infinità di sfumature che contiene; il secondo, sui rapporti che la luce può instaurare con gli altri elementi della creazione, sulla cui potenziale complessità e articolazione mi sembrava non vi fosse, in linea generale, attenzione sufficiente nelle pratiche teatrali comuni.
La seconda sezione del laboratorio era anche legata ad una mia presa di posizione contro una certa attitudine, nelle pratiche teatrali, a prestare maggiore attenzione alle sorgenti luminose e agli strumenti in sé, che alla molteplicità delle relazioni che la luce può instaurare nello spazio. Non raramente si pensa che la complessità di un progetto luci dipenda dalla quantità degli apparecchi impiegati, e non dalla quantità e qualità dei rapporti che essi generano.
Si tende peraltro anche a pensare che importanti prerogative della luce, come la forma e il movimento, vadano affidate prevalentemente alle sorgenti e non, appunto, alle relazioni; cosa che spiega il proliferare negli ultimi decenni di apparecchi che “muovono” la luce (i vari tipi di sorgenti motorizzate) o proiettano forme di luce (proiettori di immagini o di luci sagomate).
In Corpoluce gli apparecchi utilizzati sono solo due, e sono fissi. Ma la luce ha identità ed è pensata e predisposta in modo tale che riveli (e cambi) forma e movimento nel suo incontro con il corpo. Le due linee di luce, ferme, frontali tra loro, combacianti in una parete virtuale, vengono spezzate, curvate, “formate” dal corpo che le intercetta e a loro volta spezzano, curvano, danno forma al corpo. La luce diventa corpo. Il corpo diventa luce.
Questa tecnica è alla base di tutto lo spettacolo; e forse proprio per questo ha per me un valore emblematico rispetto alle questioni di tipo generale alle quali ho accennato; e rispetto alla tendenza a dare più importanza agli strumenti e alla loro quantità, che ai rapporti che ogni singola luce può stabilire.
La scarsità e la fissità dei mezzi, in queste condizioni e in questa prospettiva, non sono limiti, ma moltiplicatori di possibilità.

